Benedetto XVI – I passi compiuti

Una sintesi di quanto abbia significato, complessivamente, il pontificato di Benedetto XVI, sul piano delle relazioni ebraico-cristiane, significherebbe ripercorrere, nelle sue tappe salienti, un percorso intenso, che ha visto tanti momenti significativi, alcuni di segno positivo, altri meno. Certamente, quando, sette anni fa, Joseph Ratzinger salì al soglio di Pietro, molti pensarono – conoscendo il suo tradizionalismo, il suo rigore teologico, la sua palese avversione alla modernità e al liberalismo (combattuti come pericoloso veicolo di ‘relativismo’, insidiosa minaccia per la saldezza della fede) – che il teologo bavarese avrebbe impresso una brusca inversione di marcia, o almeno una sensibile battuta d’arresto, al cammino avviato dal Concilio Vaticano II, anche sul piano del dialogo interreligioso. Lo stesso Cardinale, poco prima di essere eletto, aveva affermatoin un’intervista che il valore del Concilio restava alto, ma che andava combattuta una sua interpretazione in senso assolutizzante – ossia come se esso avesse cancellato o oscurato le acquisizioni delle precedenti risoluzioni conciliari -, mostrando così di non escludere, se non di auspicare, una sorta di riflusso della Chiesa indietro nel tempo. Oggi, alla fine del suo mandato, possiamo dire che ciò, sostanzialmente, non è avvenuto. Il dialogo con i ‘fratelli maggiori’, pur tra tante difficoltà e incomprensioni, è andato avanti. E se non si è arrestato con un Pontefice tanto legato alla tradizione, al valore temporale dell’istituzione ecclesiastica e all’osservanza dogmatica, difficilmente ciò avverrà con il suo successore.
Certo, riguardo al popolo mosaico, papa Benedetto ha ritenuto opportuno ribadire (sia pure ‘sottovoce’, e per i soli seguaci del rito preconciliare) che la loro ‘illuminazione’ da parte del Vangelo resta ancora nei voti della Chiesa di Roma. L’idea dell’unicità della verità – leit motiv del magistero del teologo – non ha evidentemente ammesso la possibilità di un’altra verità, fuori dalla Chiesa. Nulla salus extra Ecclesiam. Eppure, verso questa particolare verità ‘altra’, verso la “santa radice”, papa Benedetto XVI ha manifestato, in più occasioni, un evidente rispetto. E, verso il popolo ebraico, un atteggiamento che si può definire di amicizia. Nel momento in cui, con un gesto inatteso, lascia la sua alta responsabilità, mi piace ricordare quella che mi sembra la testimonianza più nobile del suo rapporto col popolo mosaico, ossia le pagine dedicate alla Passione nella sua biografia di Gesù. Pagine in cui la leggenda nera dell’automaledizione del “popolo deicida” è stroncata in modo definitivo, con parole che vanno molto al di là della stessa risoluzione conciliareNostra Aetate. Sono parole scritte non dal solito “teologo progressista olandese”, ma da un successore di Pietro di grande rigore e severità dottrinale. Parole che resteranno, e per le quali mi pare giusto rendergli un sincero riconoscimento.

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Un caro e autorevole amico mi ha cortesemente espresso una sua perplessità rispetto a un passo del mio intervento di mercoledì scorso, nel quale, a proposito della presenza, nel testo delle Costituzioni italiana e francese, della parola ‘razza’, ho affermato che il riferimento a tale concetto, in quanto mera indicazione di identità etnica, può anche essere usato senza intenzioni di tipo razzista (come evidentemente avvenne, per esempio, nel caso della redazione delle due Costituzioni, ove l’uso della parola ‘razza’ fu inserito con chiaro intento antidiscriminatorio). Accolgo volentieri il suggerimento, e mi correggo. Se si vuole fare riferimento alle caratteristiche fisiche dei popoli occorre usare altri termini, perché quella “parola malata” va bandita in assoluto. E, come avverrà ora in Francia, andrebbe cancellata anche dal testo della nostra Carta costituzionale.

Francesco Lucrezi, storico

(13 febbraio 2012)