Il nuovo folk blues viene da Gerusalemme

In occasione della straordinaria performance sanremese pubblichiamo l’intervista realizzata ad Asaf Avidan da Anna Momigliano per Pagine Ebraiche (novembre 2009).

Li hanno paragonati a Jeff Buckley, a Macy Gray e persino a Janis Joplin. Asaf Avidan & the Mojos sono uno dei pochi, anzi dei pochissimi gruppi israeliani che sono riusciti a sbarcare nel mondo della musica leggera internazionale. Il fatto che cantino in inglese certo ha aiutato, ma ancora di più ha aiutato uno stile unico e accattivante: un sound che per convenzione è stato collocato nel “folk rock” (definizione, peraltro, che loro dicono di non potere sopportare), ma che dimostra fortissime influenze blues, talvolta strizzando l’occhio al soul e all’indie rock. Per ora restano un fenomeno di nicchia, osservato con grande interesse dagli addetti ai lavori ma ancora sconosciuto tra il grande pubblico. La loro musica, troppo energica, ricercata e individuale per rimanere confinata nel piccolo mondo dei cantautori made in Israel, ha già stregato prestigiosi critici musicali internazionali. In particolare il cantante del gruppo, Asaf Avidan, nato a Gerusalemme nel 1980, è stato definito “un genio” dalla rivista Rolling Stone: “Una voce genuina e potente, qualcuno che sa cantare, urlare, sussurrare e sorprendere”, al punto da “farti pensare di stare ascoltando Janis Joplin”. Il successo commerciale ora però sembra a portata di mano. Avidan e la sua band hanno appena firmato un contratto di distribuzione europea con la casa discografica Sony Columbia – la stessa che fu di Leonard Cohen e di Bob Dylan, due punti di riferimento per l’artista. E pensare che fino a un anno fa Avidan era un perfetto sconosciuto anche per gli israeliani, uno studente dell’accademia di belle arti di Bezalel, a Gerusalemme. Nel 2008 si è autoprodotto il suo primo album, “The Reckoning”, da cui è stato rilasciato il singolo “Weak”, con un video girato da due suoi compagni di corso: “Lo abbiamo creato per la nostra tesina finale”, raccontano Elyashiv Levine e Hadar Landsberg sul loro canale di Youtube. Nel giro di poche settimane “Weak” ha scalato le classifiche israeliane. Nel dicembre dello stesso anno Rolling Stones ha distribuito “The Reckoning” nella sua edizione che viene venduta in Germania, Olanda, Belgio e Svizzera: “E’ un grande onore”, aveva commentato il giovane artista. “Speriamo sia anche il segnale di un buon inizio per il 2009”. Un augurio che si è trasformato in realtà, visto che quest’anno hanno tenuto due concerti a Londra e firmato il contratto discografico che potrebbe rivoluzionerà la sua carriera. In vista della distribuzione europea, Avidan si racconta a Pagine Ebraiche.

L’INTERVISTA
Il tuo sound è davvero unico per gli standard israeliani. Da dove viene?

Sono cresciuto con la collezione di vinili dei miei genitori. Loro si sono incontrati a New York negli anni Settanta, quindi c’era un’abbondanza dei grandi nomi del rock’n’roll, del blues e delle leggende del jazz. Non mi sono interessato molto a questo genere di musica fino a 13 anni, quando si è formato il nuovo rock anni Novanta. Ho ascoltato i Nirvana per la prima volta, e la mia vita è cambiata per sempre.
Quali sono le altre tue influenze musicali?
Poco dopo ho cominciato a scoprire chi aveva influenzato questo nuovo rock: i Led Zeppelin, i Doors, Janis Joplin, Jimi Hendrix. Poi sono andato ancora indietro e ho scoperto il Blues. E’ cominciato tutto da lì: John Lee Hooker, Muddy Waters, Robert Johnson, una volta che si ascolta questa musica non si torna più indietro. Aggiungici i testi di Bob Dylan e Leonard Cohen e avrai il cavallo vincente. Non so se il “folk” faccia davvero parte della mia influenza, perché non sono un artista folk in nessun modo. Scrivo di me e solamente di me, non ho le pretese di mettere i pensieri e i sentimenti della gente nelle mie canzoni. Sono la voce dei miei sentimenti ed esperienze, il fatto che così tanta gente si possa riconoscere nelle mie parole un po’ mi sorprende.
Sei cresciuto in Giamaica, come ti ha influenzato?
La Giamaica mi ha dato molto, ma non nel senso che ci si potrebbe aspettare. Non ascolto musica reggae, a parte Bob Marley, che non è proprio un artista reggae in senso stretto, visto che mischia elementi rock e soul. Ma Marley ha qualcosa che ho capito essere l’ingrediente chiave in tutte le arti: l’onestà. Credi a ogni parola, perché lui crede veramente in ogni suono che vocalizza. E’ un dono che in pochi hanno, specie nel mondo musicale di oggi.
Quali artisti contemporanei ammiri di più?
Là fuori ci sono un paio di band veramente spettacolari: i Radiohead, White Stripes, i Raconteurs, Kings of Leon (ma non l’ultimo album), Cold War Kids, Fiona Apple. Però non mi piace il termine ammirare: io non sono il tipo che ama guardare le persone dal basso in alto, e nemmeno dall’alto in basso. Rispetto la loro arte, il talento, la creatività, ma non credo che una persona possa essere l’idolo di qualcuno solo per una canzone che ha scritto. Penso che dovremmo conservare l’ammirazione per i medici, gli insegnanti, i difensori degli animali e per il volontariato.
I critici musicali ti hanno paragonato a Janis Joplin. Ora ti senti sotto pressione?
Beh, è un gran bel complimento. Ma non mi preoccupo troppo di quello che la gente scrive o non scrive di me e della band. L’unica pressione che sento è quella di essere soddisfatto del mio lavoro, e da parte della cerchia ristretta degli amici. Certo adesso ci sono molte aspettative su di noi. Ma io cerco di non pensarci e di concentrarmi sulle cose importanti, nella vita e nell’arte.
Parliamo del contratto con la Sony Columbia. Che effetto fa questo successo improvviso?
Io non la vedo come un successo improvviso. Certamente non il contratto con Columbia-Sony. Alla fin fine l’unica cosa che è successo è un po’ di inchiostro su un pezzo di carta. Il duro lavoro per la band e per chi lavora con noi continua, come è continuato per gli ultimi tre anni. Siamo cresciuti lentamente, ma con le unghie e con i denti, abbiamo lavorato sodo per essere arrivati dove siamo ora.
Non ci dirai che non siete contenti…
Ma no, non ci lamentiamo per niente: stiamo facendo quello che amiamo, e il fatto che il nostro lavoro sia notato ci dà grandi soddisfazioni. La gente di Sony/Columbia è diventata parte della “famiglia Mojo” e noi la siamo dei loro. Ormai siamo degli amici e penso che stiamo costruendo un bel rapporto. Però la firma di un contratto attira la stampa, ma non vuol dire di per sé un successo. Non è un risultato, ma solo l’inizio di un cammino per diffondere l’arte che pensiamo valga la pena di essere diffusa.

Anna Momigliano (Pagine Ebraiche novembre 2009)