La rinuncia
Gli ha anche scritto Shimon Peres, presidente dello Stato d’Israele, con gesto inusuale, per omaggiarlo degli otto anni di pontificato. L’abdicazione di Joseph Ratzinger dalla cattedra di Pietro (opzione impropriamente definita come atto di dimissioni) è destinata a lasciare un segno tangibile non solo nella storia della Chiesa di Roma. La sofferta «rinuncia», così come l’ha definita il medesimo Benedetto XVI, costituisce infatti un precedente che sfida senz’altro gli esegeti del codice canonico ma, soprattutto, interroga nel suo insieme l’istituzione ecclesiale, i cattolici e i non cattolici, compresi i non credenti, sulle ragioni di tale scelta. Che si sia scatena l’abituale ridda di voci sui retroscena è parte stessa del dramma cortese che va compiendosi. Non che non vi siano dei fondamenti in certe considerazioni. Del pari a qualsiasi altro potere di questa terra la Città del Vaticano, in quanto Stato, è amministrato in base a criteri che rinviano a coalizioni d’interessi e a concreti rapporti di forza. Le scelte del papa, da ultima quella estrema di non essere più tale, sono quindi inevitabilmente il riflesso anche di questa umana disposizione delle cose. Significativo il fatto, poi, che il suo pontificato si sia a suo tempo di fatto incontrato con il passaggio di consegne, alla Segreteria di Stato, ganglio strategico del circuito di comunicazione e di decisione dopo la riforma interna voluta da Papa Giovanni Paolo II nel 1988, tra Angelo Sodano e Tarcisio Bertone, quest’ultimo già arcivescovo di Genova e uomo di riferimento nella Congregazione per la dottrina della fede. Dopo di che, schiacciare l’intero percorso di Ratzinger su quest’ultima considerazione risulterebbe riduttivo, non aiutando a capire il senso – e anche la cifra potente – della sua abdicazione.
Sul versante ebraico credo che si possano dire molte cose, in parte già richiamate da autorevoli voci e in parte destinate ad emergere ancora nella discussione di qui in avanti. Si è anche parlato di «amicizia» (Riccardo Di Segni), nel solco di una tradizione progressivamente avviatasi già con i cascami immediati del Concilio Vaticano II e poi consolidatasi con il trascorrere del tempo,da Giovanni XXIII in poi. Benedetto XVI, nel suo stile cauto e misurato (la «prudenza e saggezza» richiamate dal cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia), ha continuato a interloquire. Pesavano su di lui molti fattori, primo tra tutti quello di essere tedesco – con il tragico lascito novecentesco del suo paese – e l’essere seguito a un pontefice polacco, che invece faceva parte di quella schiera di popoli che hanno subito gli effetti delle catastrofiche condotte della Germania negli anni dell’occupazione militare. Le distinte sensibilità su Israele, sul suo presente e sul suo destino, non hanno fatto da velo alle intense relazioni, in Italia come in Medio Oriente. Peraltro Benedetto XVI aveva rimarcato da subito, ossia immediatamente dopo la nomina, la volontà di non tradire il percorso conciliare, di cui è stato uno degli artefici. In questo senso, quindi, i momenti di maggiore perplessità sono emersi in quello che si è rivelato essere un obiettivo non raggiunto, il riassorbimento dello scisma lefebvriano. Plausibile che con il nuovo pontificato non solo le lancette dell’orologio della mediazione con i tradizionalisti scontino una revisione all’indietro ma che dell’intenzione originaria poco o nulla venga mantenuto. L’atteggiamento intransigente del clero lefebvriano, che disconosce il magistero conciliare, costituisce infatti un vincolo non contrattabile. Non di meno, la presenza al suo interno di un personaggio come Richard Nelson Williamson, ordinato vescovo nel 1988 da monsignor Lefebrvre e dichiaratamente negazionista (ebbe a dire che: «There was not one Jew killed in the gas chamber. It was all lies, lies, lies!»; o più sofisticamente, affermando di non nutrire simpatie per «i nemici di Nostro Signore Gesù Cristo», che: «se gli ebrei sono nemici di Nostro Signore Gesù Cristo – naturalmente non tutti gli ebrei, ma quelli che lo sono – allora non mi piacciono»), rimane per parte ebraica un ostacolo insuperabile. Il prosieguo del dialogo ebraico-cattolico, avendo fatto propria la professione di pentimento per gli errori della Chiesa nel passato già espressa da Wojtyla, ha tuttavia poi scontato le insoddisfazioni per le parole del pontefice ad Auschwitz nel 2006, quando la responsabilità della Shoah era stata attribuita ad «un gruppo di criminali», così come la liberalizzazione della messa in latino, nel luglio dell’anno successivo, laddove si riprende l’evocazione liturgica tridentina del Venerdì santo con la richiesta della conversione degli ebrei (che devono essere «sottratti alle loro tenebre»).
Più in generale, il campo di una battaglia – a volte dichiarata esplicitamente, altre volte no – ha ruotato intorno alla figura di Eugenio Pacelli, al giudizio da formulare sulla sua condotta negli anni della Seconda guerra mondiale e, di immediato riflesso, al processo di beatificazione avviato da Ratzinger nel 2009. Questo è un primo repertorio, per così dire, a fronte di relazioni che si sono comunque consolidate nella loro costanza. Non la stessa cosa può dirsi con il mondo musulmano, ma lì le proporzioni e i rapporti di forza planetari sono ben altra cosa. La discontinuità più netta di questo Papa la si è comunque misurata nel rapporto che questi ha intrattenuto con il suo predecessore, Karol Wojtyla. Una discontinuità di metodo e di merito. Tanto Giovanni Paolo II era presente nel circuito mediatico, avendo avviato e poi continuato – fino alla fine dei suoi giorni – un’intensa attività di evangelizzazione, costituita essenzialmente dalla promozione della sua presenza, accostando come forse mai era avvenuto in epoca contemporanea il corpo della Chiesa al suo corpo fisico, di tempo in tempo sempre più stanco e prostrato, quanto Benedetto XVI ha volutamente lasciato in secondo piano quest’ultimo aspetto, arrivando al punto, infine, di non volere consegnare l’immagine del suo declino umano a quello dell’istituzione. Sul piano del merito, è poi emersa una forma di comunicazione al contempo più cauta e molto meno sorprendente di quella woitylana. Forte è stato l’imprinting teologico, trattandosi Ratzinger essenzialmente di un uomo di dottrina e quindi di riflessione e di interpretazione della medesima. I temi ripetuti in otto anni di magistero hanno ruotato non tanto intorno alla necessità di una morale cristiana, molto presente invece in Giovanni Paolo II, quanto all’alleanza tra fede e ragione in un confronto secco con il relativismo (l’abbandono della verità e quindi della fede), l’agnosticismo, il materialismo, l’edonismo l’individualismo, il sincretismo, tutti intesi come segni di una decadenza, soprattutto in Europa, del corpo sociale e, quindi, di quello spirituale. Anche da ciò, e da un sostanziale pessimismo di fondo, a malapena tradito nelle sue comunicazioni ai fedeli, accentuate in questi ultimi giorni (attraverso il richiamo, con calcolato linguaggio biblico, alle divisioni nella Chiesa e a ciò che ne «deturpa il volto», ovvero agli «individualismi»), il teologo che alberga nel papa ha sicuramente sviluppato una sorta di silenziosa distanza dalla Curia romana, l’insieme dei poteri che ruotano intorno al pontificato. L’elemento clamoroso è che la sua rinuncia, che si concluderà in un ritrarsi dagli affari secolari dell’ecclesia per dedicarsi ancora allo studio e alla meditazione, è un atto che ne ha scavalcato gli ordinamenti, per rivolgersi direttamente, in una sorta di dialogo diretto, senza intermediazioni, alla comunità dei fedeli, così come al suo vertice, il Concistoro cardinalizio. Della dirompenza di tale scelta un papa che, come si diceva, della cautela aveva fatto un paradigma, non poteva non esserne consapevole. Da tempo senz’altro andava meditando una soluzione di tal genere, di cui certuni presagivano, senza peraltro averne riscontro certo, la progressiva maturazione. Tra il 15 e il 20 marzo, quindi, con l’apertura del conclave, quando 117 cardinali elettori (su un totale di 220), più di metà dei quali di origine europea, saranno chiamati a scegliere il suo successore, avremo a che fare con una Chiesa già molto diversa da quella alla quale siamo abituati a pensare. Misureremo con il trascorrere del tempo quanto la rinuncia di Benedetto XVI sia destinata a costituire il segno di un’opportunità a venire piuttosto che il segnale di un vincolo insuperabile.
Claudio Vercelli, storico
(17 febbraio 2013)