In cornice – Il Nabucco di Daniele Abbado

Basare la scenografia di un “Nabucco” su continui richiami alla Shoah, rischia di finire in un flop. È già accaduto. Ma Daniele Abbado, regista dell’edizione ora in scena a La Scala, si è mosso con intelligenza, senza utilizzare simboli abusati o troppo evidenti, ma basandosi su elementi più profondi e in parte nuovi. Il pubblico ha applaudito a lungo Abbado e credo che il suo messaggio rimarrà più inciso nella mente degli spettatori, proprio perché Abbado li ha lentamente attirati dalla sua rete. Ad esempio, non ha vestito i personaggi con pigiami a righe o con uniformi naziste, ma piuttosto con vestiti della media borghesia mitteleuropea degli anni ’30. Niente di troppo appariscente, ma nei momenti topici ecco apparire i bambini vestiti con pantaloncini corti e con baschi di colore scuro. Non hanno alzato le braccia come nella celebre foto dal ghetto di Varsavia, ma il parallelo era evidentissimo. Mi ha poi colpito il modo in cui Abbado ha ricreato le colonne del Tempio di Gerusalemme: senza cercare alcuna ricostruzione storica, ha optato per dei parallelepipedi scuri, lisce, simili ai blocchi di granito senza nome del Museo della Shoah di Berlino pensato da Libeskind e del Memoriale degli ebrei assassinati d’Europa creato da Eisenmann sempre nella capitale tedesca. Così, quando il Tempio viene distrutto, è come se fosse la memoria cadesse e rischiasse di scomparire, salvo poi ritornare in parte in piedi. Non so chi abbia colto questa sfumatura: è però importante notare che grazie alle opere di grandi architetti come Libeskind ed Eisenmann, il patrimonio dei simboli associati alla Shoah si stia espandendo, colpendo prima gente come Abbado e poi altri. È dimostrazione evidente che l’arte è fondamentale per mantenere vivo e rinnovare il ricordo della tragedia che abbiamo subito dai nazisti.

Daniele Liberanome, critico d’arte

(18 febbraio 2013)