Ognuno indossa la maschera che si merita

È bene avere in chiara una cosa, soprattutto in un momento in cui siamo chiamati a fare delle scelte politiche che avranno inevitabili riflessi per un paese, l’Italia, dove molti degli indici vitali della società, quindi non solo quelli economici, sono al ribasso e il futuro sembra non meno difficile del passato appena trascorso. La tentazione di rompere tutto è comprensibile ma non va in alcun modo assecondata. Non solo perché si sa cosa si lascia ma non quello che si troverà bensì perché già è capitato che dal vaso di Pandora siano usciti non gli effluvi di una nuova era di sviluppo ma i miasmi della barbarie della regressione. Non si tratta di avere paura del “nuovo” ma di cercare di capire se davvero quanto e quanti si presentano sotto quelle spoglie possano svolgere tale ruolo o non siano, piuttosto, un ulteriore segno del declino che è oramai da tempo in atto. Non contano, quindi, i veti e gli anatemi preventivi, ma i giudizi. Che sono tanto più difficili da maturare in un momento di tensioni, dove la confusione, nel senso soprattutto di un eccesso di disordinate informazioni, prive di un codice di interpretazione condivisibile, insieme all’inflazione di parole d’ordine svuotate del loro reale significato (“sviluppo”, “crescita”, “progresso”, “equità”), inducono una reazione di diffidenza al limite del desiderio della defezione. Ma non c’è nulla di peggio di chi si tira indietro, salvo poi continuare a recitare, come una sorta di giaculatoria (mi si passi il termine), fuori luogo e fuori tempo, il novero delle colpe altrui. I problemi del nostro paese sono molti. Tra questi occorre richiamare il divario generazionale, che va facendosi incolmabile (con giovani, e a volte anche i meno giovani, sempre più precarizzati e marginali, a fronte di classi di età più anziane meglio tutelate, anche se non è sempretutto da leggersi in tali termini); lo sgretolamento dell’industria nazionale, che in questi ultimi vent’anni si è compiuto con il colpevole assenso di coloro che si sono alternati al governo; la mancanza endemica di lavoro, problema che non data certo ad oggi ma che si sta riproponendo in maniera sempre più drammatica; l’assenza di una leadership responsabile, altrimenti capace solo di mettere in scena se stessa, per raccogliere subitaneamente il consenso collettivo, salvo poi abbandonare la società al suo destino; una ideologia di senso comune intrisa di populismo becero e regressivo,di infantilismo, di banalizzazione e trivializzazione della vita e del vivere insieme; in generale, la subalternità che il nostro paese rivela da sempre di nutrire nei confronti dei partner europei più forti. Sia ben chiaro che a questi, come ad altri problemi prioritari, si potrà rispondere efficacemente solo in un’ottica continentale, ovvero europea. Che ciò piaccia o meno. Il prossimo governo sarà senz’altro chiamato ad un’impresa quasi ciclopica, la rinegoziazione con l’Unione europea di una serie di vincoli e di norme che, se altrimenti applicate per come sono previste, alle condizione in cui ci troviamo, rischiano di farci tracollare. Dopo di che qualche avviso ai naviganti, ossia ad ognuno di noi, mi pare che si possa fornire, senza per questo invadere il territorio delle libere scelte. Un piccolo memento si impone, infatti.Quella cosa che, più o meno propriamente chiamiamo “fascismo”, intendendo con essa non tanto l’omonimo regime, consegnato agli archivi della storia, ma un atteggiamento mentale persistente, non sta solo a destra ma alligna anche in altre parti degli schieramenti politici, oggi forse in auge. Si tratta di un modo di essere, una miscela tra voglia di rivalsa, crescente intolleranza che si fa veemenza, prurito alle mani e desiderio di “fare i conti” una volta per tutte. Si presenta sempre come una palingenesi: afferma di volere rompere quello che c’è per ricostruire daccapo, con spirito genuino e innovativo. Dichiara che quanto esiste è corrotto in sé e non presenta rimedio se non attraverso una obbligata resa dei conti. Si guardi, in tale senso, il programma sansepolcrista, redatto nel 1919, dai cosiddetti fasci italiani di combattimento, dove ad affermazioni dichiaratamente nazionaliste si alternavano rimandi al “socialismo”. In ciò fa appello ai risentimenti collettivi: siete vittime di ingiustizie, avete dei conti in sospeso – dice ripetutamente, nel suo argomentare apparentemente di buon senso, in realtà con fini non certo egualitari – ed io vi offrirò l’opportunità di vederveli pagati, una buona volta. Si rivolge indistintamente a tutti, vellica il desiderio di una rivincita, dichiara che è venuto il momento di buttare gambe all’aria i poteri costituiti, che sarebbe marci di dentro. Gioca, furbescamente,sul complesso di esclusione che molti cittadini avvertono, e non a torto, ai propri danni, offrendo loro facili soluzioni, ossia delle scorciatoie, a problemi complessi: gli dice che la politica è così corrotta da dovere essere azzerata. Affermava Gilbert Keith Chesterton: “chi non crede in D-o non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto”. E si potrebbe ribadire che, allo stesso modo, chi non crede più alla politica comincia a credere politicamente a tutto, partendo proprio da chi fa la voce più grossa. In quanto fenomeno che vuol essere di massa, perché alla ricerca di consenso, tale mentalità fascistica non è un residuo del passato ma un’istanza del presente. Da qui a suggellare che ciò che può non piacere politicamente sia “fascista” tout court, ne passa. Ma il presentarsi con determinati abiti di certi atteggiamenti urlati, dinanzi ad una platea compiaciuta, divertita, passivamente partecipe, quasi “oceanica”, deve pure fare riflettere. Per non cadere in facili e seduttive trappole. Come devono fare riflettere le condiscendenze che nel discorso politico di questi ultimi due decenni sono state offerte ad un passato, quello ancora una volta fascista, che ha lasciato una traccia indelebile nell’incoscienza di una parte degli italiani. Sì, nell’incoscienza, non nella coscienza. Troppo spesso si sono vellicati quei trascorsi, con ammiccamenti e rimandi, quasi a volere dire che le cose, allora, non andavano troppo male. C’è chi ne ha fatto un’apologia anche in tempi recenti. Cosa c’entra tutto ciò con le prove elettorali in corso e a venire? Molto. C’è una tentazione, che attraversa una parte della collettività italiana, quella che sta subendo il declassamento economico: la delega ad un salvatore della patria, capace di fare sognare, prima ancora che di realizzare qualcosa. Non è fatto nuovo, per l’appunto. Rivela la potenziale debolezza delle istituzioni liberali, a tratti il fragile radicamento della democrazia nel nostro paese, l’inettitudine di classi di governo autoreferenziali, distanti dai problemi del bene pubblico e dell’interesse collettivo. Non di meno, ci dice che chi si sente con una corda al collo cerca a volte nel proprio boia il suo salvatore. Non è tempo di prediche ma senz’altro di partecipazione vigile. Ci piaccia o meno, va ribadito, le chance di questo paese sono in Europa, senza la quale non c’è futuro. Se i suoi organismi si sono rivelati iniqui vanno riformati, non disintegrati. Per farlo occorrono voci autorevoli perché credibili, per parte nostra. In alternativa c’è solo il sogno infantile della bacchetta magica, che libera tutti, in un colpo solo, dalla condizione del bisogno. Salvo poi scoprire che il sogno è in realtà un incubo.

Claudio Vercelli, storico

(24 febbraio 2013)