Rav Bernheim: “Benedetto XVI ha compiuto passi decisivi, ma la realtà è plurale e una coalizione religiosa impossibile
Rav Gilles Bernheim, gran rabbino di Francia, qual è stata la sua reazione all’annuncio della rinuncia di Benedetto XVI al suo mandato?
Questa decisione è un passo degno e coraggioso, perché, come ha detto l’ex direttore del quotidiano cattolico La Croix Bruno Frappat, siamo in un mondo in cui prevale l’istinto di schiacciare i propri simili con il proprio ego e l’esercizio dei propri poteri. Rinunciare a questo istinto è impossibile dal momento in cui ci si è battuti per conquistare i propri poteri. Allontanare se stessi dal trono, come Benedetto XVI sta facendo, è una lezione di portata universale. Questo gesto ci mette in gioco nelle nostre scelte e nella nostra vita.
Il pontificato di Benedetto XVI ha mostrato periodi di tensione fra la Chiesa e le comunità ebraiche, in particolare al momento della cancellazione della scomunica a monsignor Williamson, un vescovo integralista apertamente negazionista, o al momento della rimessa all’ordine del giorno della preghiera del venerdì santo in cui si domanda che “Dio illumini il cuore degli ebrei”. Che insegnamento se ne può trarre riguardo alle relazioni ebraico-cristiane?
Sono stato colpito dalla volontà di Benedetto XVI di riprendere a suo carico i gesti eccezionali di Giovanni Paolo II riguardo il popolo ebraico al fine di fare di una eccezione una tradizione che sarà ormai quella della Chiesa. Giovanni Paolo II era l’uomo della prima volta: la visita alla sinagoga di Roma, il viaggio di grande significato simbolico a Gerusalemme. Benedetto XVI avrebbe potuto evitare di rimettersi sul cammino del suo predecessore. Nel pieno della polemica sulla cancellazione della scomunica del vescovo integralista e la beatificazione di Pio XII, è andato alla sinagoga di Roma ma anche quelle di Colonia, di New York, così come a Gerusalemme. Gli atti fondamentali di Giovanni Paolo II lungi dall’essere una spettacolare eccezione, divengono con Benedetto XVI una tradizione della Chiesa e fanno orma parte di quello che deve accadere.
Non dimentico che Benedetto XVI non ha solamente parlato dell’ebraismo. Ha incontrato molti ebrei. Poiché ascoltare gli ebrei di oggi, i discendenti di un passato che tanti cristiani avevano reso oscuro, rappresenta per la Chiesa il fatto di stare a confronto con pagine della storia scritte con il sangue, del sangue ebraico, pagine che erano semplicemente state omesse nei suoi libri di storia. Ascoltare gli ebrei oggi non insegna soltanto ai cristiani riguardo agli ebrei, ma anche agli ebrei riguardo a loro stessi.
Nonostante l’insistenza di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI nel promuovere la dichiarazione Nostra Aetate che dopo il concilio Vaticano II ha profondamente modificato la relazione della Chiesa cattolica con l’ebraismo, permane il rischio di un antisemitismo cristiano? Oppure il pericolo è altrove?
La relazione del cattolicesimo con l’ebraismo è cambiata in una maniera molto positiva, questa è un’evidenza. Ma altri cambiamenti stanno avvenendo allo stesso tempo. In Europa sono numerosi coloro che amano vedere nell’ebreo l’immagine del debole, del perseguitato, del sofferente. Dal momento in cui l’ebreo è presentato come oppressore di altri individui ancora più deboli, cessa poi di essere il vero ebreo. Lo si sostituisce con colui che è percepito come la vera vittima e si propagano etichette di razzista o di nazista che una volta spettavano al suo aggressore. Questa dinamica che opera in Europa è pericolosa, poiché conduce alla logica di revocare e negare la legittimità dello stato di Israele e alla passività nei confronti di alcune correnti antisemite presenti nel mondo islamico.
Nel quadro delle relazioni ebraico-cristiane come giudicare l’attitudine dei leader e della popolazione ebraica riguardo alla Chiesa cattolica?
Dopo l’insegnamento del disprezzo nei confronti degli ebrei, siamo giunti alla capacità di stima. Ma questo lavoro di avvicinamento non ha mobilitato che una piccola minoranza di cristiani e di ebrei, pervasi dell’importanza della posta in gioco: sarebbe a dire il concetto che Gesù è nato, ha vissuto ed è morto in quanto ebreo. E che, se si riconoscesse l’integralità della sua identità ebraica, non si comprende come potrebbe allora un cristiano disprezzare, o semplicemente ignorare gli ebrei suoi fratelli. Noi osserviamo in questo campo il risultato più importante di questi ultimi decenni della rivoluzione della Chiesa nei confronti degli ebrei. Senza alcun dubbio il ricordo della sofferenza degli ebrei causata dalla Chiesa rende difficile agli ebrei riconoscere il valore religioso del Cristianesimo. Inoltre, in quanto minoranza esposta al rischio di conversione forzata, gli ebrei si sono fatti durante i secoli una regola di non ammettere niente e nessuno negli altri culti.
Su delle basi risanate nei rapporti reciproci, potranno constatare che i cristiani non compromettono la loro integrità religiosa, soprattutto se la loro pratica religiosa è rigorosa, riconoscendo che dei cristiani possono essere da esempio non a dispetto della loro fede, ma proprio grazie ad essa.
Quali gesti e quali parole le comunità ebraiche possono sperare dal prossimo papa?
Prima di tutto la totale apertura degli archivi di Pio XII che coprono il periodo della Seconda guerra mondiale, al fine di permettere agli storici di meglio comprendere l’attitudine di questo papa nei confronti degli ebrei.
Ma l’avvenire del dialogo fra cristiani ed ebrei si inscrive nella speranza che il prossimo papa vada ancora più avanti, nelle parole e negli atti per dissipare l’insegnamento del disprezzo. Come? Insegnando in maniera positiva il rispetto e la piena legittimità di una religione e di una fede nella quale la Chiesa trova le proprie radici: l’ebraismo. E testimoniando del valore e della singolarità della missione del popolo ebraico che, certo, non ha riconosciuto Gesù, ma di cui la saggezza e la vocazione restano perenni.
Meglio comprendere i no degli ebrei a Gesù per meglio rispettarli. Che grande sfida. Ma solo a questo prezzo l’antiebraismo cristiano potrà essere superato.
Il papa Benedetto XVI ha pubblicamente salutato la sua riflessione sulla relazione uomo-donna che è stata pubblicata in occasione del dibattito sul matrimonio aperto alle coppie onosessuali. Le religioni devono prendere parte assieme ai dibattiti della società?
No. Perché le religioni non sono travasabili le une nelle altre. E non lo diventano di più nella costituzione di fronti unitari. Riguardo al matrimonio fra persone dello stesso sesso e l’omoparentalità, ogni religione ha contribuito al dibattito con i propri argomenti, i propri punti di riferimento e la propria sensibilità. E lo si è fatto per quello che poteva essere considerato l’interesse generale della nazione, non in quanto un atto di opposizione allo Stato, alla presidenza della Repubblica o alla maggioranza parlamentare.
Se la scelta di Benedetto XVI da voi citata è stata per me una sorpresa, ritengo anche che costituisca, in questa fase delle nostra relazioni, un’eccezione. Alcuni avrebbero amato l’idea di una coalizione di religioni e alcuni avrebbero così potuto utilizzare o ridicolizzare tale coalizione come un blocco reazionario, per sua natura opposto ad ogni cambiamento. Ma la realtà è plurale, più fine e più sottile.
Stephanie Le Bars, Le Monde, 28 febbraio 2013
(28 febbraio 2013)
Qui in alto la vignetta che Enea Riboldi ha dedicato alla storica visita di papa Benedetto XVI alla sinagoga di Roma (Pagine Ebraiche febbraio 2010)