Soglia della tolleranza, tolleranza della soglia

Sgombriamo da subito il campo dalla presenza di due luoghi comuni, ossia che la storia sia sempre una “maestra di vita” (riflettendoci sopra e traendone lezione, affermano certuni, ci si armerebbe sempre e comunque contro gli errori del tempo a venire) e che essa possa ripetersi del pari al passato. Sono, per l’appunto, due idee che riescono anche a raccogliere un qualche brandello di verità ma che esprimono, quando vengono generalizzate, l’incapacità di cogliere i nessi, che sempre intercorrono, tra singolarità di un evento storico (tanto più se tragico), contestualizzazione nell’ambito in cui esso si è manifestato e di cui è espressione ed, infine, la sua natura di parte di un più ampio circuito di fatti, decisioni, condotte e protagonisti. Se si isolano certi episodi della storia è per meglio studiarli come elementi di una complessa successione, non per eleggerli a monumenti (del bene come, soprattutto, del male). Detto questo, entriamo nel merito della riflessione. Le elezioni politiche si sono svolte da pochissimo. Il risultato è noto a tutti. Ne emerge un quadro di sostanziale ingovernabilità, fatto che diventa un ulteriore fardello collettivo nella misura in cui il nostro paese, tanto più oggi, necessiterebbe di una classe dirigente in grado di operare scelte molto impegnative, possibilmente in base ad un consenso ragionato e non per atto autoreferenziale. L’una, l’élite, e l’altro, l’assenso razionale, non ci sono. E, in tutta plausibilità, non ci saranno neanche nei tempi a venire che, come tali, si preannunciano sotto il segno dell’incertezza. Se la speranza è l’ultima a morire rimane il fatto, tuttavia, che un esercizio di realismo a questo punti si impone, anche a rischio d’essere impietosi con se stessi. E questo ci induce a ritenere che la democrazia rappresentativa, se con essa si intende non solo una tecnica di espressione del voto ma un modo di alimentare razionalmente il processo di formazione delle decisioni, insieme alla sovranità decisionale, sono in pieno declino. Le ragioni rimangono tante e complesse. Non sono riconducibili ad un unico denominatore, avendo semmai molto a che fare con l’oramai irreversibile indebolimento della costituzione economica dell’Italia, paese che è scivolato in posizioni sempre più marginali rispetto al consesso non solo dei Newcomers asiatici ma anche e soprattutto al cospetto della vecchia Europa. Un lungo ventennio populista, le cui radici rimandano ad un passato ancora più lontano, non si è quindi per nulla concluso. Poiché quando ad esso ci riferiamo non parliamo tanto di sigle e di partiti ma di un modo di concepire la società, che è andato invece diffondendosi e quindi cristallizzandosi. Nei mesi scorsi una tanto spasmodica quanto inconsistente campagna elettorale, infatti, è stata giocata su una serie di promesse e di parole d’ordine completamente vuote, che a volte si negavano da sé nel momento stesso in cui venivano pronunciate. Ma c’è di peggio ed è la cifra dell’ambiguità con la quale molti protagonisti elettorali hanno recitato il loro ruolo. Se da una parte era evidente che tale condotta serviva a non doversi pronunciare sui temi più scottanti, a partire dalla drammatica situazione in cui si trovano i lavoratori e le imprese in Italia (l’uno sta scomparendo, le altre vanno morendo), dall’altro rivelava, in certi casi, una concezione intollerante della stessa competizione, lasciando trasparire il convincimento che si trattasse di una strada ancora obbligata per poi procedere, “finalmente”, alla resa dei conti. Che se dovesse per davvero avvenire – e mi sfugge in cosa potrebbe altrimenti concretizzarsi se non in una rottura degli ordinamenti costituzionali e amministrativi – si tradurrebbe, se ne può stare certi, non in un grande cambiamento verso nuovi e migliori equilibri ma in un clamoroso passo all’indietro. Temo che non ci siano soggetti politici coscienti della posta in gioco, indipendentemente da quello che essi dicono di se stessi, essendo semmai il più delle volte perduti dietro il proprio particolare, ossia i propri immediati interessi. Mentre tra una parte dei nostri connazionali, sempre più messi alla corda dal perdurante stato di crisi, si rivela non solo lo sfiancamento economico, di cui sono vittime, ma la crescente paura da abbandono a sé, che avvertono come la vera colpa da attribuire alle élite dirigenti. Ne deriva che sempre più spesso le pulsioni aggressive vengano lasciate circolare deliberatamente incontrollate. Si dice, anche qui falsamente, che siano la sana espressione della “veracità popolare”. C’è qualcosa di molto pericoloso in tutto ciò: non è il “popolo” (anzi, la “gente”) a sbagliare ma è senz’altro sbagliato lasciare inevasa una domanda, che è al medesimo tempo bisogno di riconoscimento e di protezione, e che sta assumendo i caratteri di una gigantesca onda montante. C’è qualcuno, espressosi potentemente in quest’ultima tornata elettorale, che si sta incaricando di incanalare il malcontento. Si è in presenza di veri e propri imprenditori politici del risentimento, che convogliano l’angoscia da esclusione, che sempre più spesso le famiglie italiane vivono, dando ad essa un volto, dei nomi e, in tal modo, degli obiettivi. Tutti fittizi, poiché la protesta – altrimenti in sé assolutamente legittima – contro un ceto politico sordo e feudalizzato, se non si accompagna ad un progetto chiaro, sul quale fare convergere non solo il mutevole assenso degli elettori, ma anche energie, risorse e investimenti da parte delle élite economiche, oggi tra le grandi assenti dai processi decisionali nel nostro paese, rischia di rivelarsi per ciò che in fondo è, ossia nel medesimo tempo una civetta per cittadini disorientati e un ulteriore incubatore di rabbiosità assortite. Il senso dell’impotenza sta infatti divenendo un comune denominatore tra ceti e gruppi sempre più marginalizzati e, quindi, frustrati nella loro richiesta di rappresentanza. Non si tratta di una domanda astratta: semmai è la pressante esigenza di non essere travolti dal vero tsunami in corso, quello economico. La vecchia politica, e si perdoni la semplificazione, ha riproposto con evidente stanchezza ma anche rigida maniacalità, se stessa, nei suoi rituali ben poco rassicuranti e senz’altro fuori tempo massimo; quella cosiddetta “nuova” sta recuperando stili, linguaggi e contenuti di mobilitazione collettiva ancor più vecchi, che per certi aspetti rinviano a qualcosa sì di moderno ma al contempo anche di extrademocratico. E qui subentra la questione della ripetibilità dei trascorsi, che è per più aspetti fuori discussione, poiché quel che è stato non potrà più essere nel medesimo modo in cui si presentò a suo tempo. Ma senz’altro, nell’erosione ossessiva dei diritti, nella mancanza di uno straccio di alternativa alla miseria – soprattutto morale e culturale – dei tempi correnti, nella tracotante indifferenza con la quale chi ha e può guarda affondare chi non ha e non può (e così dicendo viene da pensare in particolare modo alla condotta dell’Unione europea), c’è l’infernale e perverso meccanismo che fa dell’esclusione altrui la premessa per la disintegrazione propria. Siamo a un punto di non ritorno? Non credo. Almeno non ancora. Ma ci stiamo incamminando. Per un concorso di fattori che solo in parte sono ascrivibili alle pure innumerevoli fragilità italiane, che datano a prima del processo di unificazione compiutosi centocinquanta anni fa. Il senso della precarietà si fa forte: in alcuni strati sociali è oramai dominante. Subire stati crescenti di paura, o lasciare che prendano piede, e governarli con il ricorso alle emergenze, rischia così di divenire l’orizzonte permanente della nostra società. Per i più è una disgrazia, per altri diventa un’opportunità insperata. Poiché non tutti soffrono nel medesimo modo e se molti pagano pegno certuni poi lo riscuotono. Mi aspetto, se le cose dovessero peggiorare, che qualcuno prima o poi sfoderi l’ambiguo discorso che rimanda agli “ebrei” la colpa di qualcosa. Un qualcuno, va da sé, non più trincerato dentro il ridotto della sua minorità politica e morale, ma “finalmente” posto nella condizione di dire che rompe un inutile tabù, quello che condanna l’antisemitismo. Non c’è antidoto che funzioni, nel qual caso, perché quando si arriva a tale esito è perché la crisi è divenuta troppo violenta per essere governata con gli strumenti ordinari. A volte si varcano soglie fatali senza rendersene conto. La politica dovrebbe servire a impedire che ciò accada ma se c’è un grande assente nel nostro orizzonte è proprio questa, sostituita da populismi assortiti, chiassosi e sbracati, come da fredde e inconcludenti tecnocrazie.

Claudio Vercelli

(3 marzo 2013)