…riflessioni
Mi capita di riflettere in questi giorni, per circostanze dolorose e inaspettate, su due amici che non ci sono più. Raffaele Grassini e Andrea Mariani sono stati due figli di Venezia ebraica. Hanno condiviso una storia comune (quella di una gloriosa e antica comunità), ma non potevano essere più diversi. Le loro vite si sono a tratti incontrate, la loro vicenda umana è un po’ lo specchio di quello che siamo noi, di come ci comportiamo, in certi casi di come dovremmo aver cura di non comportarci. Raffaele, rav Grassini, ha avuto la ventura di frequentare l’ultima classe attiva della scuola elementare ebraica di Venezia prima che chiudesse. Figlio di matrimonio misto e in parte lontano dalla shemirat mitzvot, si è in seguito riavvicinato e dopo aver frequentato il collegio rabbinico di Roma e aver studiato in Yeshivah in Israel è tornato in Italia. Probabilmente è stato il primo rabbino di una “nuova generazione” che ha portato inediti stimoli a una comunità ebraica italiana che alla fine degli anni ’70 era ancora disorientata e non trovava una sua identità. Rabbino a Venezia, nella “sua” comunità, se ne allontanò per una delle solite beghe che periodicamente interessano tutte le nostre comunità. Andò a Trieste, ma la malattia ce lo portò via troppo presto, e domenica ci ritroveremo a studiare Torah nel suo ricordo. Trieste ricompare nella biografia troppo breve del mio amico Andrea. Abbiamo fatto il bar mitzvah insieme nella schola Spagnola a Venezia, ma già frequentavamo gli ambienti laici dell’Hashomer Hatzair e vivevamo un ebraismo secolare in maniera entusiasta. Andrea si è trasferito a Monfalcone e poi a Trieste, e ha creato due capolavori: una bella famiglia ebraica e una doppia presidenza della comunità triestina che ha rilanciato con decisione la vita ebraica giuliana. Anche lì, anche per lui, ci sono state beghe comunitarie che poste di fronte al valore della vita e delle opere di Andrea impallidiscono in tutta la loro inutilità. Raffaele e Andrea meritano onore e ricordo per quello che hanno fatto, per quel che sono stati. E ci lasciano un rimpianto e una domanda. Il rimpianto, per non aver potuto gioire più a lungo della loro compagnia nei nostri giorni. E una domanda a noi stessi nel nostro operare: non sarebbe forse il caso di imparare ad apprezzare con maggior profondità e disponibilità l’agire di chi di noi è in vita e lavora per il bene delle nostre comunità, prima di trovarci a vivere il dolore del rimpianto e della commemorazione di chi non c’è più?
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(8 marzo 2013)