Orizzonti privi di gloria

I pensieri e, soprattutto, le preoccupazioni per l’esito delle elezioni son ben lungi dall’essere cessati. Al timore, fondato, che si possa a breve tornare alle urne, al riscontro che l’instabilità sembra essere divenuta una costante del nostro sistema politico, più in generale al riscontro della debolezza in cui versa il nostro paese si accompagnano nuovi e pressanti interrogativi sulla natura dei soggetti che si stanno affacciando sulla scena politica. Soggetti, detto per inciso, che paiono destinati a capitalizzare gli esiti del diffuso malcontento che, ben lungi dall’essere sedato, rischia ora di montare ancora di più. Sulla cecità di una classe politica, la nostra, drammaticamente autoreferenziata e sostanzialmente avulsa, nonché indifferente, alle condizioni in cui sempre più spesso molte famiglie italiane si trovano a dovere cercare di sopravvivere, già si è detto e ancora si avrà modo di dire. Non di meno, riguardo alle crescenti responsabilità di un’Unione europea sempre più ottusamente trincerata dietro la sua concezione tecnocratica e asociale (quasi a volere rimarcare un’eterogenesi dei fini, laddove quello che doveva essere l’obiettivo per cui era stata costituita, la creazione di una cittadinanza sociale europea, parrebbe essersi ribaltato nel suo opposto, ossia in una serie di pratiche d’esclusione), ci si soffermerà ancora, a patto che alla fine della traiettoria che stiamo vivendo non ci sia la morte dell’Europa medesima come entità politica. Detto questo, rimane il panorama nazionale. Che lascia quanto meno perplessi. Un quarto dell’elettorato ha scelto per un movimento – tale vuole farsi chiamare, rifiutando l’etichetta di partito, e con esso, parte delle sue procedure tipiche – che ancora una volta dice di essere innovatore, promettendo una rigenerazione del nostro paese. È plausibile che, qualora dovessimo tornare a breve alle urne, questa formazione politica conosca ulteriori successi. Alla sorpresa per la novità, vista anche la sua traiettoria atipica, registrando un repentino incremento di consensi nel volgere di un paio d’anni, si sono sommati dubbi e interrogativi che, allo stato attuale delle cose, non hanno trovato risposta. E che, in tutta plausibilità, non ne troveranno, almeno non a breve. La forza propulsiva della lista di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, il primo un attore comico il secondo un imprenditore nel mercato delle comunicazioni, sta proprio nel non fornire mai risposte univoche, lasciando volutamente in sospeso i quesiti. Alle domande su come intendano tradurre il peso politico, che oramai vantano, in un programma politico sostenibile e realizzabile sostituiscono la reiterazione dell’invettiva contro l’intero sistema politico. In tale modo non si chiudono alle spalle, aprioristicamente, le porte del più ampio consenso, laddove questo dovrebbe essere, nelle loro aspettative, così copioso da permettere di rivoluzionare il sistema politico e, in stretta relazione, quello amministrativo italiani. Punti peraltro di partenza, si presume, verso ulteriori mete. In questo calcolato “vuoto programmatico”, che fa il paio con l’esplicito sincretismo ideologico di cui le dichiarazioni degli eletti, degli affiliati, e di una parte degli elettori, ne sono una chiara espressione, a partire dalla banalità per cui destra e sinistra sarebbero categorie che non funzionano più (una semplificazione tipica delle destre, peraltro), si sommano singoli atteggiamenti e prese di posizione che inquietano. Precedentemente alla tornata elettorale le aperture a Casapound, movimento dalla chiara matrice fascista, come tale orgogliosamente rivendicata, e a seguire le affermazioni di Roberta Lombardi, nominata con una singolare procedura, capogruppo alla Camera, sul fatto che il fascismo “prima che degenerasse aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia”, hanno sollevato preoccupazioni e riserve. Che nella lista ci siano anime diverse, per così dire, è fatto scontato. Il Movimento cinque stelle trae infatti la sua forza dall’essere, nel medesimo tempo, una ibridazione tra posizioni diverse e nel presentarsi come forza di rottura. Che esso sia stato votato anche da italiani che si collocano nell’area della destra radicale, è non meno plausibile. Lo stresso Grillo ha più volte ribadito il carattere plurale (ma non pluralistico, essendo una struttura fortemente verticistica, senza organismi di mediazione al suo interno) del suo movimento politico. Tuttavia, per quanto ci riguarda, al di là dell’esercizio, un po’ rituale ad onore del vero, quello dell’interrogarsi su quanto ci possa essere di “fascistico” nel discorso politico dei suoi esponenti, varrebbe forse la pena soffermarsi su altri aspetti, spostando un po’ più in là il fuoco dell’attenzione. Dal che si desumono alcune cose, a partire dalla recente polemica sull’articolo 67 della Costituzione, quello che vieta il mandato imperativo. La concezione della democrazia che alberga nei paraggi del raggruppamento grillino è infatti extra-costituzionale, ovvero al di fuori di quelli che sono i dettami, sostanzialmente condivisi, anche se con frequenti torsioni, dalle forze politiche di maggioranza e di minoranza che si sono succedute dal 1948 in poi. Il richiamo stesso ad una concezione di democrazia diretta, esercitabile attraverso il web (la prassi sarà però ben altra cosa, quando si dovranno fare i conti con la realtà), è fatto a sé rispetto all’idea, molto più articolata, di un sistema di rappresentanza basato sulla complessa articolazione di poteri, laddove la sovranità popolare si esprime anche per il tramite della loro mediazione e comunque sempre in presenza fisica (leggasi: visibile) dei poteri e dei loro attori. Segnatamente, un’idea di tal genere già l’avevano espressa, ma con forza e impatto ben diverso, i radicali, limitandola tuttavia alle attività del loro partito. Chi frequenta abitualmente la rete (quella rete che Grillo e Casaleggio indicano come lo strumento di elezione per la politica a venire e, quindi, come nuova frontiera del vivere comune), sa che valutare la congruenza delle informazioni è molto più difficile che altrove, essendo queste sovrabbondanti e ridondanti, venendo fruite senza filtro, equivalendosi indipendentemente da qualsiasi codice di interpretazione ed essendo soggette a fenomeni di diffusione virale. Chiunque non abbia una solidissima preparazione al di fuori della rete è quindi incapace di distinguere fra l’informazione complessa, che analizza le situazioni, la bufala, o addirittura la tesi millenarista. In tale contesto vanno quindi interpretate le reazioni di Beppe Grillo quando i militanti di Casapound gli chiesero: “sei antifascista?””, domanda alla quale rispose senza scomporsi: “Questo è un problema che non mi compete. Questo è un movimento ecumenico. Se un ragazzo di Casapound vuole entrare nel Movimento 5 Stelle e ha i requisiti, può farlo”, per poi concludere: “Più o meno avete delle idee che sono condivisibili. Certe di più, altre di meno. Questa è democrazia”. Dal punto di vista dell’attore genovese l’antifascismo – e quello che esso comporta in termini di autocoscienza collettiva – non è più una discriminate di fondo. La democrazia è “altro”, una dimensione perlopiù giacobina, e non deve necessariamente confrontarsi con la drastica e tragica eredità dell’esperienza storica mussoliniana nel nostro paese. Semmai, si lascia presagire, deve liberarsene, trattandosi di un fardello oramai anacronistico. Dopo di che, più che chiedersi se in ciò ci siano elementi di filo-fascismo, varrebbe la pena di ribaltare la logica, domandandosi quanto volutamente difetti l’antifascismo. Poiché questo discorso, che non rinvia solo ad una cultura politica, diventa semmai l’indice del rapporto che si intrattiene non solo con alcuni aspetti della storia nazionale ma con la storia in quanto tale. Dietro l’angolo c’è infatti il fantasma del complottismo come grande motore degli interessi occulti; uno spettro che nelle proposte semplificatorie che ispirano le idee del grillismo, fa da comoda interfaccia al sorprendente candore con il quale molte di esse vengono espresse, non tanto dal leader quanto dai suoi sostenitori. Il primo dato che traspare, infatti, è la dichiarata incapacità di elaborare il senso delle enormi complessità del vivere associato. Ad esse sostituisce una sorta di filosofia dell’autogestione, dove la “buona volontà”, i “sentimenti condivisi”, l’“onesta”, il viversi come “comunità” sono eletti a procedure politiche. Basterebbe la buona intenzione, in altri termini, fatto quest’ultimo che non difettava neanche a molti militanti dei movimenti totalitari del Novecento. Fino ad oggi questo atteggiamento, che ancora non si è tradotto in altro che non sia il ricorso all’urlo liberatorio, spesso scurrile, in consonanza con lo spirito populistico che alberga in Italia da almeno vent’anni, ha premiato politicamente la lista. E lo farà, presumibilmente, nei tempi a venire. Più di tanto, tuttavia, da sé non potrà dare. Poiché la complessità delle relazioni nelle quali ognuno di noi è inserito si riprenderanno da sé la loro rivincita. Ed allora i casi potrebbero essere due: o ci si risveglia dal torpore un po’ infantile, quello che rifiuta la realtà sostituendola con la proiezione delle proprie fantasie, nel qual caso il movimento di Grillo e Casaleggio si sgonfierà da sé, non senza però avere fatto pagare un ulteriore pedaggio ad un’Italia che sta rischiando molto; oppure, il messianismo che traspare tra le righe, potrebbe prendere il sopravvento, sostituendosi, come una sorta di religione laica, al deficit collettivo di progettualità politica. Con conseguenze, in quest’ultimo caso, imprevedibili. Un nodo centrale sarà il rapporto con l’ampia ramificazione di poteri diffusi, quelli che non sono eletti ma che interagiscono abitualmente con gli organismi elettivi e che concorrono a prendere le decisioni così come ad orientarne gli effetti. Senza la convergenza di intenzioni (e risultati) con essi ben poco al politico, oggi come nel passato, è stato concesso. Nella stessa misura, quindi, gli risulterà concretamente possibile fare qualcosa nel futuro se dai discorsi di mera rottura passerà alle mediazione. L’intenzione di bypassarli, ad esempio affrontando il problema del ruolo dell’Unione europea o della moneta unica con referendum plebiscitari, è al limite del grottesco, destinata com’è a scontarsi contro il solido muro degli altrui interessi. Ed è proprio su questo piano che si misurerà la sostanza – e la sostenibilità – del grillismo. Che sta seguendo la traiettoria tipica di tutti quei movimenti a fondamento palingenetico, ovvero che promettono di riformare il mondo alle sue radici, semplificandolo, ma che passo dopo passo debbono poi assestarsi alla guida di qualcosa, divenendo essi stessi istituzioni. La tradizione politica italiana ci dice che essi o si sono ibridati, come nel caso della Lega, costruendosi una rendita di posizione e scendendo quindi a compromesso con il già esistente, oppure si sono dati la veste di regime, distruggendo le articolazioni dei sistemi liberali. La terza via, quella dell’implosione, diventa possibile se trovano competitori all’altezza della sfida, fatto che oggi sembra però mancare. Il vero rischio, quindi, sta in questa dinamica, dove alla crisi della rappresentanza tradizionale si contrappone un atteggiamento di sistematica rottura degli equilibri repubblicani e costituzionali. Il problema, va da sé, si intreccia strettamente con il perdurare di una crisi economica i cui pericolosi effetti potrebbero amplificare, e di molto, le spinte più aggressive. Grillo gioca su un doppio palcoscenico, prefigurando ribaltamenti radicali degli assetti “partitocratici” e, nel medesimo tempo, affermando di essere l’unico a potere contenere la spinta eversiva che viene dal basso, incanalandola verso una nuova democrazia, basata sulla rete. Il problema non è quanto di incultura fascistica possa in ciò esprimersi ma piuttosto l’idealizzazione di una democrazia autoritaria, perché verticistica, in cui l’apologia del web si accompagna alla distruzione della ramificazione dei poteri rappresentativi, di cui il Movimento cinque stelle, dietro un’apparente genuinità di intenzioni, potrebbe rivelarsi il vero esecutore terminale.

Claudio Vercelli

(10 marzo 2013)