Daniel Libeskind: “I miei edifici sono capaci di narrare la memoria”
Cinquantadue disegni originali, risalenti a otto diversi progetti realizzati dall’architetto di fama internazionale Daniel Libeskind per la Germania, l’Italia, la Polonia, gli Stati Uniti e l’Inghilterra. È l’insieme della prestigiosa mostra ‘Disegni architettonici di Daniel Libeskind’ che si inaugura lunedì 11 marzo alle 18.30 all’Ermanno Tedeschi Gallery di Roma. Dal classico disegno a linea fino ai vividi acquarelli a colori e agli schizzi a mano libera: molto vasta la gamma di stili e di tecniche proposti. Le opere saranno successivamente esposte alla Ermanno Tedeschi Gallery di Milano, Torino e Tel Aviv.
Realizzare un edificio, dice, è raccontare una storia. E’ creare un mondo di significati che scaturiscono da sostanze mute – pietra, acciaio, cemento, legno, vetro – una volta che la mano dell’architetto le ha impastate e poi immerse nella giusta luce. La sua prima storia Daniel Libeskind, 67 anni, archistar di fama ormai planetaria, l’ha narrata con il Museo ebraico di Berlino che fin dall’apertura, ancor prima che l’esposizione venisse allestita, è stato salutato dal pubblico e dalla critica come una delle strutture più innovative del ventunesimo secolo. E la narrazione dell’architetto figlio di genitori sopravvissuti ai lager nazisti è continuata a Osnabruck, dove ha progettato l’ampliamento del Felix Nussbaum Museum, dedicato al pittore ucciso ad Auschwitz. E’ proseguita con l’addizione a forma di spirale apposta al Victoria and Albert Museum di Londra e poi a Duisburg, dove disegna la nuova sinagoga e la sede della comunità ebraica e in decine d’altri luoghi in tutto il mondo: da San Francisco a Hong Kong. Fino ad approdare alla sfida più complessa: la progettazione di Ground Zero, la voragine che si schiude nel cuore di New York dopo il crollo delle Torri gemelle. Il racconto per eccellenza, in cui passato, presente e futuro, vita e morte, dolore e speranza si intrecciano in un groviglio inestricabile. A sostenere Libeskind, musicista di formazione e docente appassionato, è la convinzione che l’architettura sia uno strumento di comunicazione potente. “Con l’architettura comunichi tramite lo spazio e gli edifici, ma ogni cosa è memoria e ovunque possiamo rintracciare una storia”. La prima prova di questo architetto che costruisce il suo primo edificio a ben 52 anni è di quelle da far tremare le vene ai polsi. Si tratta di entrare nel profondo della coscienza collettiva per rievocare la cancellazione brutale degli ebrei d’Europa. E di farlo a Berlino: la città in cui la macchina di morte nazista ha preso forma e si è fatta politica e azione di massa, la città che sullo scorcio del secolo promette di diventare, anche sul fronte architettonico, una delle nuove frontiere del Vecchio Continente. A sostenere Libeskind giunge allora un altro dei caposaldi del suo pensiero: la convinzione che l’architettura sia un’arte a tutti gli effetti, non una semplice abilità artigianale. Più di dieci anni dopo l’architetto ne parla ancora con una passione rara. Raggiunto al telefono nella sua casa di New York, dove attualmente vive insieme alla moglie Nina, compagna di vita e preziosa sodale di progetti e attività, Libeskind illustra quello squarcio di lavoro, ormai divenuto storia, con un’energia invidiabile e una disponibilità rara. E fin dalle prime parole si comprende bene che l’archistar dagli occhialini scintillanti, gli stivali da cowboy incensati dai cronisti e l’allure elegante dei designer di grido, non ha molto a che fare con l’icona modaiola consacrata in questi anni dai media. “Il progetto per il Museo ebraico di Berlino era molto importante – spiega – Fino ad allora non avevo realizzato alcun edificio e lì non si trattava semplicemente di costruire un ulteriore spazio museale ma di comunicare alla società cos’ha significato per la coscienza e per la cultura europee la Shoah e far capire quant’era accaduto”.
Architetto Libeskind, il Museo ebraico di Berlino ha attirato migliaia di visitatori da tutto il mondo ancor prima della sua apertura come museo nel senso tradizionale del termine. La gente arrivava per visitare l’edificio e rimaneva sedotta dai suoi percorsi e dalle emozioni che emanavano. Quasi che l’architettura fosse sufficiente, da sola, a raccontare la memoria. Com’è potuto accadere?
Il Museo di Berlino intreccia due edifici, uno storico e l’altro di nuova realizzazione. E questo è stato uno dei primi elementi da tenere in considerazione perché ha consentito molte soluzioni innovative. L’obiettivo era quello di creare un edificio rivoluzionario: quel museo non doveva e non poteva essere paragonabile ad altre strutture analoghe, penso ad esempio a Yad Vashem o all’Holocaust Memorial Museum di Washington. Doveva essere un museo tedesco e doveva sorgere a Berlino, una città contemporanea che si stava sviluppando con rapidità incredibile. Per questo ho scelto di usare un linguaggio non sentimentale o nostalgico ma di descrivere il significato di quanto era accaduto con altri accenti.
Un fatto didattico?
Non proprio. Si trattava piuttosto di evocare e rendere visibile la complessità della storia e di trasmettere una nozione civica della memoria, di costruire una sensibilità rispetto al passato e al futuro: se non sappiamo dove siamo stati non capiremo mai neppure dove stiamo andando. E l’architettura, non dimentichiamolo, è un’arte e in quanto tale può suscitare pensieri ed emozioni di grande profondità.
A Berlino il compito era particolarmente complesso. Si trattava in realtà di raccontare l’indicibile e di mettere in scena un’assenza.
Per molti versi il tema su cui abbiamo lavorato è stato quello dell’esilio, un esilio profondo e totale. In questo senso ho preso spunto, nel progetto, dal Mosè e Aronne di Arnold Schoenberg. Nel museo volevo rappresentare il terzo atto di quell’opera: dalle sue mura, dal vuoto che percorreva, i personaggi dell’opera dovevano levare il loro canto silenzioso che l’eco dei passi dei visitatori doveva far risuonare.
In realtà anche il progetto per Ground Zero vuole far risuonare un’assenza.
Proprio per questo ho voluto lasciare esposte le fondamenta, perché la gente possa vederle e realizzare quanto è stato cancellato dall’attentato alle Torri gemelle. Ground Zero dal mio punto di vista deve diventare uno spazio totalmente dedicato alla memoria, in cui la gente può stare insieme e condividere una storia concreta. In questo approccio vi è, dal mio punto di vista, una sensibilità profondamente ebraica: una dimensione della memoria che non ha nulla di astratto ma è profondamente intrisa di vita e di emozione.
Lei a marzo è a Roma per inaugurare una mostra che ripercorre la sua attività attraverso una serie di disegni. Qual è il suo legame con l’Italia?
L’Italia è parte della mia vita. Alla fine degli anni Ottanta vi ho vissuto e lavorato e qui sono cresciuti i miei figli. E’ un Paese dalla cultura straordinaria, i cui paesaggi esprimono una civiltà unica. Proprio in Italia è nata l’idea del Museo ebraico di Berlino e ho realizzato alcuni dei miei ultimi progetti tra cui il Citylife di Milano per la riqualificazione del vecchio quartiere fieristico e il Palazzo dell’edilizia ad Alessandria. E poi Roma è un luogo meraviglioso per una mostra. Qui, fra i suoi palazzi e le sue fontane, la mia convinzione che l’architettura sia un’arte in piena regola trova una conferma a ogni passo.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche, marzo 2013
(11 marzo 2013)