Una nuova stagione
Come interpretare, e quindi definire, ciò che stiamo vivendo? La percezione che il tempo in corso non sia basato sull’ordinario è molto diffusa. Se non altro il senso della prevedibilità, che era stato il tratto caratteristico dei decenni trascorsi, quelli contrassegnati dalla crescita economica e da una relativa stabilità delle istituzioni, è venuto meno e non da oggi. Dinanzi a noi sembra definirsi un orizzonte incerto. L’elemento più significativo è senz’altro il grande mutamento globale che l’economia ha impresso alla comunità internazionale e alle società, in particolare a quelle dove lo sviluppo avanzato sembrava un dato indiscutibile. Senza volere a tutti i costi ricondurre ogni segno del presente ad un filo logico che comunque tarda a manifestarsi, rimane forte la percezione che gli avvenimenti di queste ultime settimane, nella loro varietà e differenza, abbiano forse un comune denominatore, ancorché involontario. Quanto meno per i riflessi che sono destinati a manifestarsi nel nostro paese. Si tratta, in fondo, di una nuova stagione culturale che andrebbe così ad inaugurarsi. L’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro ne è, in tutta plausibilità, una riprova. Tralasciamo le polemiche, così come i fastidiosi rumori di sottofondo, non importa quanto fondate le prime e, soprattutto, i secondi, sui presunti coni d’ombra nel suo passato. Prendiamo in considerazione, invece, il fatto in sé della sua investitura e contestualizziamolo rispetto alla realtà nostra. L’Italia arriva da un lungo periodo di populismo edonista. Se dovessimo fare la tara tra le diverse ideologie correnti, è dato certo l’affermarsi già a partire dai primi anni Ottanta, anche in accordo con la svolta neoliberista che aveva connotato una nuova fase politica a livello internazionale, di un atteggiamento diffuso che trovava nell’enfatizzazione della centralità dell’individuo, rispetto a quella della comunità, e nella prevalenza dell’agire di arricchimento personale rispetto a qualsiasi altro ordine di considerazioni i suoi due perni centrali. Si è trattata di una lunga stagione, che ha segnato non tanto il cosiddetto “tramonto delle ideologie” ma il loro mutare di contenuto. Il 1989 e il crollo dei regime dell’Est hanno infine suggellato non solo la fine del bipolarismo ma anche l’avvio di una nuova fase geopolitica, alla conclusione della quale la marginalizzazione del nostro paese nel mercato internazionale e il mutamento della funzione dell’Unione europea (non più luogo di una cittadinanza sociale ma soggetto tecnocratico), paiono essere tra gli effetti di maggiore rilievo. Quanto meno per noi. Ora, dopo anni e anni di trasformazione del nostro ruolo e di oggettivo impoverimento del tessuto sociale, fatto che è purtroppo ben lontano dall’essersi arrestato, stiamo progressivamente transitando verso un’epoca che sarà contrassegnata da un nuovo tipo di populismo, di natura pauperista. Facciamo la tara alla parola “populismo”, che raccoglie molte accezioni, alcune positive altre, invece, decisamente negative, e assumiamola come termine neutro. Evitiamo quindi di almanaccare sulle definizioni. Il populismo, come richiamo al “popolo” in quanto entità indistinta, prima e unico istanza di legittimazione delle scelte politiche, è essenzialmente una mentalità trasversale che, dalla Rivoluzione francese in poi, si è andata affermando in realtà diverse e in contesti molteplici. Si contrappone all’elitarismo delle cosiddette tecnocrazie. Lo fa, spesso e volentieri, in maniera velleitaria e bislacca. Rivela di nutrice una concezione molto limitante della democrazia. Soprattutto, si dichiara insofferente delle regole, tanto più quando queste paiono imbrigliare gli “impulsi vitali” che il popolo esprimerebbe. Questa concezione delle cose, già praticata da alcuni soggetti politici e pubblici negli anni Ottanta, è stata poi l’ossatura di una lunga stagione politica, quella della cosiddetta “seconda Repubblica”, che sta ora terminando. Comunque si voglia leggere il quadro politico, quest’ultimo dato è certo. Cosa c’entra l’attuale pontefice con tutto ciò? Molto, anche se sarà il tempo a venire a dirci in quale proporzione. Non è un politico, va da sé, ma svolge senz’altro un ruolo politico. La sua biografia rivela da subito la sua ascendenza culturale e morale, laddove la preferenza per i poveri ne è un tratto fondamentale. Non lo fa con una logica rivoluzionaria, essendo egli essenzialmente quello che si suole definire un conservatore illuminato, bensì all’interno di una strategia dove la complessa Istituzione di cui è il massimo rappresentante va sì preservata ma con assestamenti progressivi verso ciò che di nuovo viene avanzando. Della qualità del suo magistero avremo tempo di dare ripetuto giudizio, per parte nostra. I primi passi sono parsi all’altezza delle circostanze. Plausibile, come alcuni preconizzano, che recuperi tratti di Giovanni Paolo II, a partire dalla necessità di un dialogo diretto, e non ingessato, non solo con la comunità cristiana ma anche con tutta la popolazione del pianeta. Gli ebrei tra questi. Di certo questo Papa dovrà accompagnare, per la parte che gli è propria, l’Italia nel mutamento strutturale che sta vivendo, e nell’oggettivo declassamento che sta subendo. La qual cosa, per l’astuzia dei fatti, che sfugge a qualsiasi preordinamento, si incontra con le trasformazioni che si sono innescate in questi ultimi due anni nel sistema politico italiano. A risultare sempre più premiati elettoralmente, quanto meno tra i votanti più giovani, sembrano essere quei soggetti che rivendicano un ruolo di rappresentanza innovativa, dal segno però ancora una volta populista, benché esso sia adesso volto in direzione esattamente opposta a quella del passato: non è più l’esaltazione di una ricchezza possibile ma l’apologia della virtù del limite. Il caso del Movimento cinque stelle va in questo senso. La sua fortuna sta in una serie di elementi, tra di loro anche molto stratificati e contraddittori, ma trova in tale posizione un collante fondamentale. L’ambivalenza di certe posizioni non può peraltro sfuggire. L’interrogativo principale è se la giovane formazione politica saprà svincolarsi dalla presa dei suoi creatori, Grillo e Casaleggio, o se ne rimarrà prigioniera, in una morsa tanto paternalistico-patriarcale quanto pericolosamente cesaristica. Perché nel secondo caso le energie, che pur porta con sé, rischiano di essere convogliate verso logiche regressive perché antidemocratiche. Rimane il fatto che l’elettorato italiano è in movimento; se ci è concesso l’ardito parallelo, anche quello cardinalizio si è rivelato essere tale. Siamo in una fase di transizione, come tale delicatissima, poiché abbiamo “scoperto” che siamo – e saremo – più poveri. Da come ci attrezzeremo a questo scenario in divenire (stracciandoci le vesti, vituperando le istituzioni, inveendo contro il destino “cinico e baro” oppure cercando di ricostruire un tessuto, quello della società, sempre più frastagliato, magmatico e sofferente) dipenderà il destino di ognuno di noi italiani, ebrei e non. Abbiamo bisogno di una presenta di élite forti perché autorevoli, sensibili alle voci innumerevoli che arrivano dalla collettività, veramente coinvolte nella gestione della società e non espressione di vuote tecnocrazie. Il resto è deserto o, se si preferisce, il pieno del lucido delirio che si sta esprimendo nell’Ungheria fascistizzata di Viktor Orban o nella crisi senza fine della Grecia disintegrata dai programmi di “aggiustamento strutturale” prescritti da Bruxelles. Nulla è scritto aprioristicamente. Quel che è certo, tra le altre cose, è che l’antisemitismo torna ad essere un indice per misurare la direzione collettiva che la maggioranza del paese fa propria. Ancora una volta in democrazia il benessere di una collettività lo si misura dal grado di integrazione di una minoranza. Non ci faremo sorprendere impreparati. Il tempo, da questo punto di vista, non è trascorso invano.
Claudio Vercelli, storico
(15 marzo 2013)