Pesach – Il buio e la luce

Un mio brillante allievo mi ha fatto notare l’esistenza di una controversia fra il Talmud babilonese e il Talmud palestinese in merito alla natura del buio. La discussione all’inizio del trattato Pessachim verte sulla mitzvah della Bediqat Chametz la vigilia di Pesach. Come è noto, la prima mishnah esordisce scrivendo che “al crepuscolo del quattordici (Nissan) si effettua la ricerca del chametz a lume di candela”. Anche se il divieto del chametz entra in vigore solo l’indomani mattina, la Bediqah è prescritta già per la sera precedente per due ragioni: la sera la maggior parte delle persone si trova a casa propria e ha il tempo di dedicarsi alla ricerca; il lume di candela si presta ad essere usato allorché tutt’intorno è buio (Talmud Bab. 4a). Rashì spiega che altrimenti la luce del giorno oscurerebbe il lume e ne renderebbe vana l’azione: shraga be-tihara may ahaney? (“a cosa serve un lume a mezzogiorno?”: cfr. Shabbat 63b, Chullin 60b). Secondo questa visione il buio è essenzialmente mancanza di luce.
Il Talmud Yerushalmì riporta a questo proposito una fonte che dà del buio un’interpretazione differente. La sua tesi è che la fiamma non illumina di giorno come illumina di notte. Rav Huna testimoniava di quando dovette nascondersi durante la rivolta antiromana del 351 in una grotta buia sotto la yeshivah di Tiberiade e per sapere se era giorno o notte accendeva un lume: quando la fiamma era debole sapeva che era giorno; se invece brillava di più era notte (cfr. Bereshit Rabbà 31,11). Il fatto che ciò accadesse non alla luce del sole, bensì in una stanza oscurata fa pensare che il buio non sia semplicemente mancanza di luce, ma un’essenza indipendente. Se ne deduce che a priori la Bediqat Chametz non può essere rinviata di proposito alla mattina ed eseguita a tapparelle abbassate: il lume non brillerebbe nello stesso modo!
La questione è più direttamente affrontata dai nostri commentatori a proposito della piaga del buio in Egitto. Il versetto dice (secondo la lettura midrashica): “Ci fu un buio pesto in tutta la terra d’Egitto. Per tre giorni (gli egiziani) non riuscirono a vedersi l’un l’altro; e per altri tre giorni non poterono alzarsi dal proprio posto. Ma per tutti i Figli d’Israel c’era luce nelle loro abitazioni” (Shemot 10, 22-23). I Maestri sostengono che ci fu l’avvicendamento di due diversi livelli di buio. I primi tre giorni si trattò più propriamente di mancanza di luce che impediva la vista, mentre nei secondi tre giorni il buio assunse un’essenza propria, quasi materiale, che impediva anche i movimenti. Il Kelì Yeqar spiega che ciò avvenne sommando al buio ordinario degli egiziani quello della notte degli Ebrei, i quali godettero in quei giorni di luce diurna continua! Ma certamente si trattò di una beriah chadashah, una situazione eccezionale.
A far sorgere l’interrogativo che il buio possa costituire un’essenza a sé e non semplicemente essere mancanza di luce contribuisce il versetto che ripetiamo tutti giorni durante la tefillah del mattino. Esso afferma che D. “plasma la luce e crea il buio” (Yesha’yah 45,7). Sa’adyah Gaon sostiene che il versetto fu scritto per combattere le credenze zoroastriane in una doppia divinità. R. David Qimchi commenta che solo in apparenza esso deporrebbe a favore della concezione di un buio indipendente: il verbo barà si addice in realtà a una concezione del buio come semplice mancanza di luce (he’eder or) perché indica creazione dal nulla. Si può parlare di beriah in questi casi attraverso la formazione del materiale che delimita e circonda il vuoto; il buio è delimitato dalla luce e così, per estensione, il bene dal male, e come tale non è fuori luogo parlare di creazione pur non trattandosi di una creatura in sé (cfr. Tur e Bet Yossef a Orach Chayim 6).
Il problema del male è per lo più risolto dai nostri pensatori in quest’ultima direzione. Maimonide sostiene che D. non può aver creato il male. “Al contrario, tutte le Sue azioni costituiscono il bene assoluto, giacché Egli non crea che l’essere e tutto l’essere è bene. Tutti i mali sono privazioni, cui non si collega alcuna azione, se non il fatto che D. produce la materia con la natura che le è propria, intendo dire, sempre associata alla privazione, il che la rende causa di ogni corruzione e di ogni male” (Guida III, 10). Tolti alcuni casi eclatanti ma fortunatamente rari come i cataclismi, la maggior parte dei mali sulla terra è prodotta da noi esseri umani: che si tratti dei mali etico-sociali, come la tirannide, il furto e l’omicidio, ovvero quelli fisico-individuali: le malattie, perlopiù provocate dai nostri eccessi. A questa concezione razionalista fa eco quella dei qabbalisti. Essi sostengono a loro volta che la creazione del mondo è stata preceduta da una contrazione della Divinità (tzimtzum). Senza l’individuazione preliminare di uno spazio vuoto (buio) non si sarebbe poi potuto riempirlo con la luce. Due sono le conseguenze di ciò. La prima è che è giusto parlare di creazione anche a proposito del buio sebbene non sia una realtà a sé, ma solo in quanto preparazione alla venuta della luce. La seconda è che il S.B. ha di fatto creato prima il buio dal nulla (borè) e poi la luce dal buio già esistente (yotzèr). Ciò ha delle evidenti ripercussioni sul piano morale. Quando una persona viene punita per i suoi trascorsi, scrive R. Yonah da Gerona (Spagna, sec. XIII), deve aver fiducia nel fatto “che il buio sarà la causa della luce”. Come dicono i Maestri del midrash Tehillim (al Salmo 22) commentando un versetto del profeta Mikhah (7,8): “Se non fossi mai caduto, non avrei mai potuto rialzarmi. Se non mi fossi mai seduto al buio, non avrei poi potuto apprezzare la luce” (Sha’arè Teshuvah II,5).
Resta ancora da chiarire a questo punto perché il versetto in Yesha’yah menzioni prima la creazione della luce e solo successivamente quella del buio. Troviamo una spiegazione nel commento Chiddushè ha-Rim alla Parashat Waychì, in cui è narrata la controversia fra Ya’aqov e Yossef in merito alla berakhah del primogenito. Dei due figli di quest’ultimo, Menasheh aveva ricevuto il suo nome perché D. aveva fatto dimenticare a Yossef la casa di suo padre (il “buio”); Efrayim perché D. l’aveva fatto procreare nella terra dell’afflizione (la “luce”). Yossef riteneva che l’allontanamento del Male (il “buio”) debba precedere l’esecuzione del Bene (la “luce”) nella realizzazione morale, mentre Ya’aqov pensava che il primato dovesse andare in ogni caso al Bene, e perciò “scambiò le braccia”! Come nel versetto yotzer or u-vore choshekh appunto, dove la luce è scritta significativamente prima del buio sebbene sia stata creata dopo.

Rav Alberto Moshe Somekh

(Pagine Ebraiche aprile 2013)