Tea for Two – Laureande disperate
Un anno fa aprivo pigramente il Corriere della Sera e leggevo un esilarante articolo di Alessandro Piperno sull’Anonimo Triestino o meglio, Giorgio Voghera, scrittore del caso letterario del 1961: Il Segreto. Libro oramai praticamente introvabile. Qualche mese più tardi, il direttore di questa testata mosso da quella che impropriamente chiamo ‘ciccitudine’ (atto di bontà immotivato), mi regala Il Segreto. Poche ore dopo assisto ad una conferenza di Claudio Magris nella quale cita distrattamente Giorgio Voghera. Il libro è nella mia borsa. Come direbbe Dante: “Scolorocci”. Mesi di errabonde visite all’università mi conducono nello studio del relatore della mia tesi, un professore di quelli che si incontrano poche volte nel proprio percorso formativo. Dopo avergli proposto un argomento un tantino complesso (una strana poltiglia che suonava come “Il conflitto tra identità italiana ed ebraica in alcuni scrittori del Novecento”) – me tapina -, mi propone di dedicarmi a uno scrittore triestino poco conosciuto dal grande pubblico: Giorgio Voghera. A quel punto mi arrendo al destino, Giorgio Voghera sia. Seguono mesi che nei film monterebbero a rallentatore con il sottofondo di Time after time, come nel dipanarsi di una storia d’amore. Leggo Quaderno di Israele, il primo libro firmato senza pseudonimo e ne sono totalmente stregata. Vorrei piangere perché parla di ebraismo italiano e ne ha capito quasi tutto e non ha paura di mostrarne vizi e virtù. Per quanto Montale lo definisca un egolatra, Voghera non guarda il proprio ombelico; è libero e la sua libertà libera anche me. Racconta della sua Trieste, dei suoi amici; gente come Roberto Bazlen, Umberto Saba e Virgilio Giotti per intenderci. Uno che alle volte è stato compagno di banco di Leo Castelli, prima che diventasse il gallerista più cool di New York e dava ripetizioni a Linuccia Saba tirandole le orecchie. Trasloco qualche giorno al Centro di Cultura Ebraica e mi imbatto in un saggio di Alberto Cavaglion che riassume in cinque pagine il lavoro letterario di Voghera ed apre mille porte nelle quali mi vorrei fiondare. Sono completamente preda degli eventi, una febbre d’amore da soap opera in fascia pomeridiana. Fare delle ricerche è devastante e appagante allo stesso tempo. Divento distratta, nervosa, adrenalinica e assonnata (il potere confortante dell’allitterazione). Bevo succhi di frutta alla Biblioteca Nazionale e litigo con i microfilm alla ricerca di articoli di giornale. Devo essere seria, eppure delle volte vorrei semplicemente vedere serie tv in pigiama e non pensare a lei, la Tesi. Che incombe. Ansia. Pecco di Ybris e penso a Micol Finzi Contini che scrive la sua su Emily Dickinson. Ma la patina di magia che ha ricoperto l’intero periodo è destinata a colpire ancora.
-To be continued…-
*Niente paura, non durerà più di due puntate, come nelle miniserie Rai.
Rachel Silvera, studentessa – twitter@RachelSilvera2
(25 marzo 2013)