Tra radicalismi e intransigenze

Cerchiamo di andare un po’ più in là della contingenza, del bisogno asfittico di reagire quasi irriflessivamente alle circostanze di ogni giorno, per domandarci che cosa avviene quando le democrazie si affaticano e manifestano chiari sintomi di crisi. Poiché quanto stiamo vivendo può di buon grado essere rubricato sotto questo indice. Non ci fasciamo la testa ma è bene non porsi nella condizione di farsela fasciare dagli altri, prima o poi. E piuttosto che stare ad almanaccare sul tasso di intolleranza altrui, così come di immediato riflesso sulla presenza o meno di antisemitismo – ed altro ancora – in quel soggetto politico così come che in quell’altro, cerchiamo di cogliere qualche aspetto dello spirito del tempo che si va manifestando. La prima cosa che emerge è il binomio che intercorre tra disimpegno della politica e eccesso di intransigenza. Che cosa si vuole dire con queste parole? Veniamo da anni, molti per la verità, tanti da poterli contare in termini di lustri, in cui si è teorizzato e poi praticato il verbo dell’astensione dell’intervento del settore pubblico nella società. Meno Stato, più mercato. Un bello slogan. Tutto ciò può significare molte cose, alcune anche positive, ma nei fatti si è essenzialmente tradotto nell’atteggiamento acritico che ha portato ad esaltare un modello astratto, quello del « libero mercato» (astratto perché non esiste nei fatti), in quanto privo da qualsiasi impedimentonormativo, come panacea di ogni male. Non si tratta solo di una condizione italiana ma nel nostro paese ha lasciato segni peculiari e si sta traducendo in una sistematica dismissione dell’intervento pubblico. A questa traiettoria, in sé ibrida, fatta di tantistop and go ma, alla fine della fiera, destinata a diminuire le tutele e la protezione della collettività, si è affiancato il fenomeno della corporativizzazione della politica. Non è un caso poiché le due cose corrono su binari paralleli. La politica si è infatti oramai ridotta ad essere una pratica ristretta, prerogativa di un ceto, che dicendo di curarsi dell’interesse pubblico – nozione quest’ultima invero assai vaga – di fatto si dedica non solo ai propri interessi ma a quelli di piccoli gruppi di pressione che hanno la capacità di orientare, e a volte manipolare, il consenso. Chi non sta in questi gruppi è di fatto tagliato fuori dalla rappresentanza attiva, anche se sul piano formale così non parrebbe essere (per votare, si vota, in altre parole). Un quadro deprimente e allarmista? Non ci pare, ad onore del vero. Da ciò, come reazione più o meno motivata, è nato ed è cresciuto un disagio sempre più forte, che ha trovato nelle liste e nei movimenti populisti un suo contenitore. Alla contrazione dei sistemi di protezione sociale, all’idea che essere cittadini implichi il “cavarsela da sé”, si è accompagnata la richiesta, variamente articolata, di una politica che tornasse ad occuparsi degli individui. Alla deficienza di quest’ultima, ripiegata su di sé, ne è conseguita la rabbiosità di quanti si sentono sempre più spesso esclusi. Dalle scelte collettive ma anche dalla loro stessa vita, assediata dai montanti problemi economici. Molti italiani si sentono vulnerabili e questo, nella fragilità che li accompagna, li rende più recettivi a proposte radicali. Va ripetuto il riscontro che ciò di cui si va parlando non è solo un fenomeno nostrano, essendosi manifestato un po’ in tutto il continente. Ma in Italia ha senz’altro trovato un appeal insperato, moltiplicato dai molti problemi che viviamo. Peraltro non è elemento di questi ultimi tempi. Dell’avvio di quella che sarebbe divenuta poi una lunga stagione populista si può parlare già con l’inizio degli anni novanta. Essa non accenna a concludersi, alimentata com’è da molteplici spinte, tra le quali, oltre alla crisi galoppante, anche l’ottuso dogmatismo economico espresso dagli organismi internazionali come l’Unione europea. Il disimpegno della politica (che è cosa diametralmente opposta dal disimpegno dalla politica), se con quest’ultima parola intendiamo invece la tutelaattiva della cittadinanza sociale, sta tutto dentro questa cornice. Dopo di che entra in gioco il secondo fattore del binomio, quello della cosiddetta intransigenza. Che è un po’ il reciproco inverso del defezionismo praticato dai politici di professione. L’intransigenza è l’atteggiamento di chi ritiene, con una vera e propria ossessione ideologica, praticata giorno dopo giorno, in quanto orizzonte esistenziale e quindi atteggiamento di vita, che ai problemi innescati dalle trasformazioni che stiamo vivendo si debba rispondere non con la logica politica del confronto tra interessi contrapposti bensì con la violenza dello scontro tout court. Nel nome di una palingenesi a venire. Poiché non c’è spazio per altri che siano diversi da sé. Tutto quello che fuoriesce da tale visuale è bollato immediatamente come cedimento, se non in quanto tradimento. È in gioco, in questo caso, un rapporto affettivo, dove ciò che conta non è il legame tra soggetti emancipati, che si mettono insieme per perseguire fini condivisi ma in autonomia, bensì una specie di fusione totale. L’idea che si nutre delle cose umane e della storia non è quella di un legittimo conflitto tra interessi contrapposti bensì di un principio che deve essere ripristinato a qualsiasi costo: che si tratti della cosiddetta «onestà» o non importa di cos’altro, subentra infatti il convincimento che la propria azione sia improntata a valori superiori, non contrattabili. Essa è una missione e va realizzata indipendentemente da qualsiasi etica della responsabilità. La politica, in tale modo, perde del tutto quel senso dinamico che altrimenti ha, per trasformarsi in una sorta di campo di battaglia dove ogni contatto con l’avversario (il “nemico”) è visto come una infrazione verso la propria parte. Si va ben presto verso il grado zero della politica medesima, che implica infineil passaggio alla guerra. Non importa se combattuta con le armi, perché ci sono molti modi per muovere un conflitto totale, cercando di annichilire chi si para dinanzi non come interlocutore ma in quanto target da annientare. Il movimento grillino presenta molti tratti di questa disposizione d’animo. Non fa politica, se con essa si intende lo scambio e la mediazione con gli altri gruppi politici, considerandosi esso stesso politica in tutto e per tutto, una volta per sempre. Non la fa perché pensa di essere la politica nel suo insieme, ritenendo di contemplare lo zenit e il nadir delle posizioni possibili. Azzera tutto il resto. In questo presenta tratti problematici perché totalitari. Ma la sua impetuosa crescita, in questi ultimi due anni, non è avvenuta nel vuoto. Semmai si nutre di alcuni precedenti che sono stati sottovalutati o volutamentesottaciuti. Il nesso tra rottura degli assetti costituzionali, di cui potremmo dolerci, e non poco, di qui in avanti, e avanzata di un populismo radicale trova nella crisi economica il suo fulcro ma non certo le sue sole ragioni. Da molto tempo, nel nome delle «identità» particolari, si sono infatti liberati, legittimandoli, atteggiamenti che nulla hanno a che fare con la democrazia. Chi arriva oggi sulla piazza politica trova un terreno predisposto alla radicalizzazione dei risentimenti. Le vicende ungheresi e greche sono solo lo specchio estremo di processi che stanno accompagnando l’Europa in quello che è il suo progressivo declino politico. E, purtroppo, forse anche civile. Non ci si deve stracciare anticipatamente le vesti ma è certo che siamo in una fase molto problematica, dove molte cose potrebbero precipitare velocemente. Non ci sono risposte univoche a questo quadro di cose ma è certo che occorra non illudersi sulla tenuta degli ordinamenti costituzionali se essi non saranno supportati da una democrazia economica che sta divenendo, passo dopo passo, una chimera.

Claudio Vercelli

(31 marzo 2013)