Che fare?

Lunedì scorso a Torino Rav De Wolff nella sua derashà del settimo giorno di Pesach ha raccontato che secondo un midrash quando i figli di Israele si sono trovati intrappolati tra il Mar Rosso e gli egiziani che li inseguivano si sono divisi in quattro gruppi con opinioni differenti sul da farsi: alcuni proponevano di arrendersi, alcuni di combattere, alcuni di pregare e altri di buttarsi nel mare. Discutendone in famiglia ci siamo resi conto che nessuno di noi avrebbe saputo dire facilmente quale soluzione avrebbe proposto se fosse stato là. Ne abbiamo tirata fuori una quinta, cercare di trattare con gli egiziani, ma in effetti era già stata ampiamente tentata senza risultati. Qualcuno ha pensato che si sarebbe potuto cercare di parlare direttamente con l’esercito e non sempre solo con il faraone, però se i sudditi egiziani avevano sopportato dieci piaghe pur di non contraddire il proprio re sarebbe stato improbabile sperare che lo avrebbero contraddetto i suoi cavalieri scelti. Abbiamo anche provato a immaginare (con scarsi risultati) quale soluzione avrebbero proposto varie personalità o mezzi di informazione dell’ebraismo italiano di oggi.
È curioso notare che la soluzione che in quel contesto si è poi rivelata corretta era quella apparentemente più illogica, che faceva perno su una fede cieca e non razionale (infatti nella discussione di famiglia è anche emersa l’ipotesi di buttarsi sì nel mare ma con un salvagente…). Un’altra soluzione apparentemente inaccettabile (arrendersi) si è però rivelata la più corretta in un diverso contesto storico: ci è sempre stato insegnato, infatti, che la sopravvivenza del popolo ebraico dopo la caduta del secondo Tempio è stata assicurata dalla scelta di Rabbì Yochanan Ben Zakai di uscire di nascosto da Gerusalemme assediata e presentarsi a Vespasiano, che gli consentirà di aprire la scuola di Yavne, piuttosto che dalla disperata rivolta di Masada. Mentre per il Ghetto di Varsavia la scelta giusta (anche se fortemente minoritaria) probabilmente è stata quella di combattere. Facile immaginarsi i toni sopra le righe che saranno corsi in ciascuna di queste situazioni e le accuse che saranno state lanciate reciprocamente (fondamentalisti, guerrafondai, traditori, odiatori di sé, ecc.); il fatto è che a posteriori è facile giudicare dai risultati, ma sul momento le cose non sono mai altrettanto chiare. Forse è bene, se non rispettare sempre le opinioni altrui (perché quando si deve agire in fretta questo non è sempre possibile), almeno imparare a riconoscere la buona fede di chi le ha espresse, che probabilmente ha a cuore come noi il futuro del popolo ebraico.

Anna Segre, insegnante

(5 aprile 2013)