…eroi
L’idea troppo spesso propagandata per cui in guerra, e in genere quando si veste una divisa, l’eroismo sia sinonimo di azione brillante svolta per il bene, mi è sempre sembrata una grave stortura. Con queste premesse, demolire la figura di Gilad Shalit sulla base della sua testimonianza e del suo comportamento non efficiente sul piano militare in occasione della sua cattura (com’è stato fatto da Ben Caspit sul Jerusalem Post) mi sembra un esercizio giornalistico ingeneroso, con cui si sminuiscono sia la vicenda tragica di un ragazzino rimasto prigioniero per cinque anni, sia la morte altrettanto tragica dei suoi compagni di tank. Chi veste la divisa di Zahal entra in un mondo a parte, che lo trasforma come essere umano e lo conduce a compiere azioni quasi sempre “in automatico”. Per questi ragazzi e queste ragazze che diventano prestissimo adulti penso ci voglia prima di tutto rispetto, e penso che nessuno possa giudicare del maggiore o minore eroismo nel loro comportamento in situazioni estreme (cosa che lo stesso Caspit ammette, da ex comandante di tank). Traggo da un bel racconto autobiografico di Gabriele Levy alcuni brevissimi esempi di quel che accade a questi ragazzi quando entrano in servizio. Ne esce rafforzata una sensazione forte che spinge a lavorare con serietà a una prospettiva di pace stabile nella regione. “Ad un certo punto, mentre ancora sono in abiti civili, una bellissima soldatessa mi chiede, sorridendo: ‘Chi vuoi che sia avvisato per primo nel caso tu dovessi morire?’.” “I nostri comandanti cominciano a gridare ordini, per lo più incompresi, dato che siamo quasi tutti nuovi immigrati. Mentre cerchiamo di abituarci alle grezze e rozze divise che ci accompagneranno per questi due lunghi anni, già le orecchie sentono lo stridore delle urla del sergente.” “Sul bordo superiore dello scarpone c’è una fessura nel cuoio. Lì bisogna inserire la propria piastrina di riconoscimento: una targhetta di metallo con inciso in altorilievo il nome ed il numero di matricola del soldato. Servirà nel caso si trovasse solo il piede, per riconoscere il morto a cui esso appartiene.” “Mercoledì notte ci siamo fatti una marcia di sette chilometri con le barelle sulle spalle, sulle quali c’era il ‘ferito’: tutto il percorso era su un terreno sabbioso. Poi ben quattro ore di sonno, seguite da esercitazioni a fuoco vivo tutto il giorno, e quindi partenza verso sera, di corsa, verso la Base 80. Venti chilometri attraversando una cittadina, girando attorno ad un lago e poi il resto in mezzo agli agrumeti. Sempre di corsa.” “Piango molto e dopo il pianto mi sento meglio, più leggero.”
“Per poter fare di un uomo un soldato, è necessario prima distruggerlo psicologicamente, per poi inculcargli quelle quattro fondamentali regole di comportamento in battaglia: buttati a terra, riparati, punta e rispondi al fuoco. Per distruggerci psicologicamente usano una tecnica molto semplice: ci tolgono il sonno. Prima o poi si crolla. E sulle ceneri di quel disastro si costruisce il soldato-robot. Così è stato per tutti.” “Alcuni minuti dopo il sorgere del sole, ho sentito degli spari e visto schegge di proiettili che hanno colpito le pietre attorno a me. Come da copione, ben imparato al corso addestramento reclute, mi sono ritrovato per terra prima ancora di capire cosa stava succedendo, ho cercato un riparo dietro cui nascondermi e iniziato a rispondere al fuoco. In pochi istanti ho capito a cosa erano serviti i lunghi mesi di addestramento. Eravamo diventati dei soldati-robot ed agivamo tutti in maniera automatica e sincronizzata. Lo scopo primario era salvare la propria vita e possibilmente anche quella dei propri compagni. Nessuno era lì per fare l’eroe.”
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(5 aprile 2013)