Da Yom HaZikkaron a Yom HaAzmaut

Mai come oggi questa giornata mi aveva emozionato a tal punto. Quando indossavo l’uniforme di Tsahal, due anni fa, sentivo che in questi momenti si ricorda chi non c’è più ma si pensa anche a coloro che proteggono oggi Israele. Essere un soldato in questo giorno è un motivo di orgoglio. Ma un soldato in divisa potrebbe per un attimo dare a un genitore addolorato la sensazione di rivedere il proprio figlio perduto. Quel ragazzo potresti essere tu. Non si può rimanere indifferenti. Oggi, dopo il mio congedo non molto tempo fa, ero seduto a casa con la mia ragazza, guardavamo la cerimonia in televisione. Vedendo un primo piano sui volti dei cadetti (ragazzi del corso ufficiali) che facevano la guardia d’onore, un brivido mi ha percorso tutto il corpo, non perché sono gli ufficiali di domani ma perché non hanno idea di quanto hanno ancora da vedere, da fare, da scoprire della vita, del mondo, con i loro cari, con nuovi amici. Anche io, quando ero lì, esattamente come loro, come guardia d’onore, mi sentivo grande, consapevole. Ora mi sembrano bambini. Ho provato improvvisamente paura, che un domani sentirò il nome di uno di loro annunciato alla radio: la vittima numero 23.086 delle guerre, degli attentati. Ascolto le vedove, le madri, che hanno perso un figlio che non ha fatto in tempo a sposarsi. Ascolto i ragazzi e le ragazze che hanno perso un fratello. Ho pensato a questa tragedia che viviamo qui, dalla più tenera età: fin da bambini vediamo la guerra come un fatto compiuto su questo terra.

Una volta le madri pregavano che il loro bambino non fosse costretto in futuro a indossare una divisa. Io non sono ancora un padre, ma oggi sarebbe considerato ingenuo pensare che questo avvenga in Israele (scrivo con tristezza.) Chi ci crede più?

Ho pensato ad amici che ho incontrato quando ho viaggiato negli ultimi mesi in Sud America. Se qualcuno di loro fosse stato in Israele la sera di Yom HaZikkaron, se ci avesse visti seduti, tremanti davanti a un grande schermo, a cantare la disperazione e la speranza con migliaia di giovani e famiglie in piazza Safra a Gerusalemme, se ci avessero osservati mentre ascoltavamo assorti le canzoni tristi alla radio o mentre conversavamo sulla realtà di questo paese, avrebbero capito qualcosa su di noi, su ciò che significa essere un israeliano, o forse avrebbero pensato di capirlo. Poi, più tardi, la sera, quando le strade si sono riempite di famiglie e di bambini, il cielo si è illuminato dai fuochi d’artificio multicolori e si è festeggiato per l’intera notte quegli stessi amici avrebbero pensato: “Gli israeliani sono un Paese di pazzi”. Ecco che cosa avrebbero pensato.

A noi israeliani è richiesto di contenere il tutto in un sol respiro: dolore e gioia, la morte dei figli e la nascita dell’indipendenza del Paese.

Non vorrei che da queste mie parole si leggesse disperazione. Voglio credere che un giorno ci sveglieremo e capiremo: noi e i nostri vicini. Vorrei che ci rendessimo conto. E spero che questo giorno arrivi presto perché questo dolore è insopportabile, ingiusto, contro qualsiasi logica. Io lo vivo un giorno all’anno, posso solo inviare sincere condoglianze a chi deve convivere con la mancanza dei propri cari tutti i giorni. Anche domani, quando tutti saranno di nuovo sereni e felici.

Non voglio scegliere una canzone, una frase, il discorso di qualcuno… Tutte le parole sono importanti oggi, le lascerò toccarmi ed entrare. E così domani mi ricorderò di tutti coloro che, morendo, ci hanno lasciato l’obbligo di rendere questo Paese migliore e degno.

Kfir Calo Livne – Kibbutz Sasa

(17 aprile 2013)