Moked, stare insieme tra diversi
Negli ultimi tempi si assiste nelle nostre comunità, e parallelamente nella nostra società in generale, a una conflittualità dai toni sempre più aggressivi. Penso che una delle forme attuali maggiormente virulente di assimilazione sia proprio il fare un uso improprio della politica comunitaria replicando le modalità della realtà che ci circonda. I denominatori comuni sembrano sempre più in crisi e di conseguenza aumenta la conflittualità interna. Discutiamo sempre di più su ciò che ci divide, senza avere un’idea chiara di ciò che ci unisce. Il Moked, la grande convention primaverile, è stato e continua a rappresentare in questo senso un’occasione di interazione culturale di dimensione nazionale. Ha stimolato, senza alcuna preclusione, il confronto fra diversi modelli di vita e di cultura ebraica, nel rispetto della sensibilità dei diversi partecipanti e rappresentando così un’occasione di approfondimento e di costruzione di un’identità ebraica consapevole. Non a caso il titolo scelto quest’anno è “Stare insieme fra diversi”. Vorrei che soprattutto i leader delle nostre comunità capissero come le attività culturali tese a rafforzare e a preservare l’identità ebraica – e non solo a intrattenere – dovrebbero continuare a costituire il collante più forte di fronte alle frammentazioni latenti e palesi presenti nell’ebraismo italiano. La partecipazione di persone provenienti da situazioni molto diverse a uno stesso evento costituisce il mezzo più adatto a valorizzare le differenze e sviluppare un costruttivo confronto fra queste. Tale scambio culturale, oltre che ridefinire l’identità ebraica italiana, contribuisce a dare voce e autorevolezza alle nostre strutture anche nei confronti della società circostante. Ma questa riscoperta delle nostre basi culturali non deve essere riservata a pochi eletti, deve essere aperta attraverso manifestazioni progettate appositamente. La mancanza di questa consapevolezza sta portando molti ebrei italiani a un sentimento di subalternità verso altre culture estranee e scarsamente autentiche. Compito dell’Unione dovrebbe continuare ad essere, a mio avviso, quello di costituire una sintesi propositiva, favorendo occasioni di avvicinamento tra queste componenti diverse. E la partecipazione di studiosi giunti da realtà estere potrà stimolarci a uscire dalla nostra visione ancora troppo provinciale. L’ebraismo italiano sta attraversando un periodo di grandi cambiamenti che richiedono un lavoro di gruppo che produca dinamiche positive e di cooperazione dotate di capacità di analisi e ricerca di soluzioni.
A questo scopo nell’ambito del prossimo Moked primaverile, che si terrà a Milano Marittima dal 25 al 28 aprile(15-18 Yiar 5773), interverranno fra gli altrivoci autorevoli e diverse, come l’antropologa francese Laurence Podselver, l’ambasciatore dello Stato di Israele in Italia Naor Gilon, l’educatore britannico Clive Lawton che ha creato l’organizzazione Limmud, e il sociologo Enzo Campelli che presenterà i primi dati della sua ricerca socio demografica, su temi di grande rilievo (la famiglia, l’educazione, la gestione della vita comunitaria, il rabbinato, la comunicazione e altro ancora) in modo da permettere un’ampia discussione a tutti i partecipanti.
L’identità è un bene cui nessuno vuole rinunciare. Un immenso e millenario patrimonio, quando si tratta dell’identità ebraica, non sempre facile da mantenere vivo e trasmettere ai nostri figli. Ma anche un valore che se dovesse perdere la propria collocazione corre il rischio di andare smarrito.
Per questo, quando riflettiamo sul tema dell’identità, noi ebrei abbiamo bisogno di misurarci con il nostro destino. Un progetto che non deve restare campato per aria, ma ha bisogno di tempi e luoghi. Sarebbe quindi azzardato e illusorio parlare di identità trascurando gli elementi di base che contribuiscono alla sua costruzione e nei quali tale identità trova espressione: la famiglia, la comunità, con il suo incrocio di interessi e di aspirazioni, con le sue istituzioni. Ma famiglia, comunità ed istituzioni non costituiscono automaticamente un porto sicuro, corrono anzi il rischio di dimostrarsi inutili, se non sono arricchite dall’unico enzima capace di renderle vive: il dialogo. L’identità, per crescere, ha bisogno di attingere alla fonte inesauribile del confronto.
L’uso di un linguaggio aggressivo, la propagazione di rivelazioni scandalistiche, il tentativo di screditare l’interlocutore, sembra invece rispondere a un’esigenza di un costume sociale e politico autoreferenziale e corporativo che nulla ha a che vedere con la cultura di Israele. La maldicenza deliberata e meditata sembra essere divenuta un’arma con cui combattere il prossimo e le sue idee. Eppure, la tradizione ebraica ha già dato sull’argomento un chiaro giudizio. Ha detto, infatti, Rabbì Naftali Braunfield nel suo Divré Naftali che “le persone nobili parlano di idee, le persone mediocri parlano di cose; le persone basse parlano di altre persone…”. E’ ora di tornare a parlare di idee, di opporci, assieme e in modo ebraico, al degrado di chi vorrebbe portarci a discutere solo di cose e di persone!
Rav Roberto Della Rocca, direttore Dec UCEI
(Pagine Ebraiche aprile 2013)