Qui Ferrara – Ebrei nella Resistenza, storici a confronto

Si è conclusa con un afflusso complessivo di 10mila presenze e oltre 2mila libri venduti nella libreria allestita al Chiostro di San Paolo la quarta edizione della Festa del libro ebraico di Ferrara. Tra i vari appuntamenti che hanno animato l’ultima giornata di incontri, al cortile d’onore del Castello Estense, un approfondimento sul contributo ebraico alla Resistenza. Tema di straordinaria attualità anche alla luce di alcune recenti pubblicazioni che investono direttamente una figura paradigmatica di quell’epoca come Primo Levi. Ospiti dell’incontro, moderato dalla giornalista Carmen Lasorella, gli storici Alberto Cavaglion, Antonella Guarnieri, Lidia Maggioli, Antonio Mazzoni, Anna Quarzi e Guri Schwarz. Partendo da una riflessione generale ci si è successivamente addentrati nel complesso mondo ebraico-ferrarese dove non poche furono le famiglie che inizialmente aderirono al fascismo e dove al contempo nacque e crebbe un movimento ad esso antagonista trasversale a differenti classi sociali. Un panel densissimo accompagnato da numerose altre iniziative di grande richiamo. L’omaggio a Paolo Ravenna, indimenticato promotore e divulgatore di storia ebraica locale (ad intervenire, tra gli altri Alberta Levi Temi, Franco Schoneit e il figlio Daniele Ravenna), un confronto sui medici rabbini attraverso i secoli con Miryam Silvera e Guido Coen, la scopertura del cippo in memoria del rabbino Immanuel Chay Ricchi. Chiusura in musica con la performance della Jewish Italian Jazz Ensemble (Enrico Fink, Francesco Bigoni, Gabriele Coen, Zeno De Rossi, Alfonso Santimone).

Pubblichiamo di seguito il testo di Alberto Cavaglion dedicato all’opera di Sergio Luzzatto Partigia che compare sul numero di maggio di Pagine Ebraiche, attualmente in distribuzione.

La giustizia dei Partigia

Non è strano che escano due libri su Levi partigiano, a breve distanza l’uno dall’altro? Frediano Sessi (Marsilio) lo ha recensito Bidussa sull’ultimo numero di questo giornale, traendo conclusioni che non condivido, per cui ritengo opportuno ritornare sul tema, esaminando Partigia di Sergio Luzzatto. L’episodio che suscita così tanta attenzione è noto da anni. Si tratta della condanna a morte inflitta a due giovani partigiani dalla banda cui Levi apparteneva in valle d’Ayas. Silenzio colpevole? Avrebbe certo potuto, e forse dovuto gridare di più, ma i suoi censori dimenticano due cose: primo che Levi non amava gridare, secondo che è morto quando il clima era fortemente condizionato dalla ideologia (il libro di Pavone esce soltanto quattro anni dopo la morte di Levi). Alcune verità Levi riuscì comunque a dirle. Nel racconto Oro (Sistema periodico) scrive che da quella esperienza lui e i suoi compagni erano usciti “distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi”. Ammissioni di colpa così esplicite non ne ricordo prima del 1973 (quando il racconto fu anticipato, credo non a caso, sulla meno ideologica delle riviste in circolazione, il Mondo). Nella poesia che dà il titolo al libro di Luzzatto, Levi ammette che nel 1943 “ognuno [era] nemico di ognuno”: tanto coraggio mancò a molti “partigia” che fino all’ultimo negarono la natura fratricida del conflitto. Tutto ciò oggi non interessa a nessuno, quello che importa è togliere “il peplo della tragedia” al santino, per dirla con Luzzatto. Operazione legittima e non nuova. A suo tempo Cases dovette fronteggiare le intemperanze dei Quaderni piacentini ostili a un Levi politicamente “moderato”, sostenitore del centro sinistra. Oggi le intemperanze riguardano la complicità di Levi nella fucilazione di partigiani. I tempi sono cambiati. Circa trecento pagine ricostruiscono le origini della Resistenza in valle d’Aosta, con digressioni e cammei su figure che non c’entrano nulla con il dramma della morte dei due ragazzi. Nell’elenco dei personaggi principali figurano, non si sa perché, Ada della Torre ed Emanuele Artom. Non è invece registrato l’autore, presente ovunque, mentre scopre da turista le bellezze di Torino o s’aggira per i luoghi della tragedia scortato dalle sue allieve e da storici autorevoli come Richard Cobb chiamati in causa per avvalorare ovvietà: per esempio che far nascere la Resistenza ad Amay fosse difficile (p. 28). Come se altrove sia stato facile. Cerca di trattenere il suo livore contro la borghesia ebraica torinese, a lui invisa e sempre contrapposta alla sregolata innocenza dei casalesi, ma non riesce a difendersi da se stesso. Ad un certo punto si lascia scappare che tra alta e bassa valle forse era in atto uno scontro etnico fra “ebrei torinesi e goym casalesi” (p. 318). Non dice che la discussione sulla violenza partigiana ha fatto passiavanti, partiti dalla controversia Pavone- Vivarelli, che finge di ignorare, come non vuole misurarsi con l’assai più innovativa ricerca di Capogreco sul partigiano Facio, un calabrese che nell’appennino tosco-emiliano fu eliminato dopo sommario processo dai compagni (e poi insignito di medaglia in quanto caduto “per mano del piombo nemico”), ma non nei primi giorni caotici delle origini del movimento partigiano. Di minuzie da storia evenemenziale il nostro non si cura, lui vola in alto, conscio di avere dalla sua parte gli storici montagnardi. La morte dei due casalesi avviene il 9 dicembre, tre giorni prima del rastrellamento che porterà via Levi. Luzzatto dubita delle testimonianze ex post, bisogna sempre esercitare la critica delle fonti, ma è proprio da escludere che i due giovani prima di essere eliminati non abbiano davvero minacciato di denunciare ai repubblichini i loro inquisitoririvali? Nemmeno tre giorni dopo Cagni, la spia, metterà in atto la minaccia con il risultato che sappiamo e che non conobbe distinzioni etniche, perché ebrei torinesi e goym casalesi furono sgominati in poche ore. Basta aver letto Meneghello e Fenoglio per capire che in simili situazioni, soprattutto nelle prime settimane dopo l’8 settembre, non si andava per il sottile. Certo, Levi rimase sconvolto e la sua opera ne porta vistosi i segni. Luzzatto dimostra alcune coincidenze testuali, ma sorvola su qualsiasi dettaglio che deponga contro la sua tesi. Nella poesia Epigrafe suggerisce che a parlare siano i due ragazzi uccisi, ma Levi scrive che essi morirono “per non lieve colpa”. Siamo proprio sicuri che mentisse anche a se stesso? Luzzatto coglie nelle pieghe di Se non ora, quando? un brandello della ferita antica, ma la sua ossessione, non sempre sorretta da amore, come vorrebbe il Franzen dell’epigrafe, deborda, oltre ogni decenza, là dove definisce uno “shabbat senza riposo” (sic) quello di Levi testimone al processo del dopoguerra (pp. 217 e 238). Cosa di tutte la più grave è quando insinua (p. 311) che nel ricostruire l’agonia di Sòmogy in Se questo è un uomo Levi sia preda della sua ossessione partigiana. Qui la misura diventa colma. Per fortuna l’inconscio fa brutti tiri. Partigia inizia con la scenetta, in stile De Amicis, del piccolo Sergio Luzzatto, che prima di addormentarsi ascolta la madre leggergli brani dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza (curiosa contraddizione per un libro dedicato a due ragazzi condannati a morte non della, ma dalla Resistenza). A metà libro (p. 155) un altro bambino ci viene mostrato davanti a un’altra deamicisiana mamma. Legge i Tre Moschettieri mentre davanti a sé scorrono i partigiani di Colajanni che liberano Casale Monferrato. Quel bambino è Giampaolo Pansa, che quella mattina si trastulla con Porthos e con il sangue dei vinti. Gongolerà Pansa nel leggere questa storia di Resistenza. Noi, un po’ meno. Esplorando il cuore delle tenebre, Luzzatto ci avverte di non aver voluto indossare i panni di un Conrad dei poveri. L’Italia del 25 aprile che ci accingiamo a festeggiare soffre di molti mali, ma non ha bisogno di un Conrad dei poveri e dei due fratellini di Pansa non sa che farsene.

Alberto Cavaglion, Pagine Ebraiche, maggio 2013

(29 aprile 2013)