Dialogo per una regione formata da minoranze
Il Presidente di Israele Shimon Peres ha rilasciato la seguente intervista al quotidiano vaticano Osservatore Romano in distribuzione oggi in serata e datato 1 maggio 2013.
Dall’attuale situazione dello Stato di Israele, agli sforzi per giungere alla pace con i palestinesi; dal ruolo delle organizzazioni internazionali, alle relazioni tra cristiani ed ebrei. Sono questi alcuni dei temi toccati dal presidente israeliano, Shimon Peres, nell’intervista rilasciata in esclusiva al nostro giornale.
A oltre quaranta anni dalla nascita dello Stato d’Israele, crede che il progetto originario dei padri fondatori sia ancora vivo? Che tipo di Paese è, oggi, Israele?
Non tutto ciò che abbiamo sognato è stato realizzato, ma quanto è stato realizzato ha superato di gran lunga le nostre aspettative. Sessantacinque anni fa, quando venne fondato lo Stato d’Israele, non avremmo mai immaginato di potere trasformare una terra arida e inospitale in un leader mondiale nell’ambito dell’agricoltura, dell’alta tecnologia, della medicina, della ricerca sul cervello e di tanto altro ancora. Abbiamo fatto pace con i nostri due vicini più grandi, l’Egitto e la Giordania, e desideriamo completare la pace con i palestinesi. Non penso che fossero in tanti a crederci. Ma abbiamo fatto tutto questo e anche di più. Israele è diventato un Paese basato sulle risorse umane piuttosto che su quelle naturali. Siamo arrivati nella terra promessa e desideriamo farne una terra di promessa; comportarci conformemente ai dieci comandamenti e costruire la nostra vita sulla scienza e sulla pace.
Quale può essere il contributo degli israeliani in una prospettiva di dialogo con i palestinesi in vista di una soluzione pacifica del contenzioso?
Dovremmo completare il processo di pace tra noi e i palestinesi. Abbiamo già compiuti validi progressi, abbiamo offerto loro uno Stato indipendente e una vita in pace e cooperazione da buoni vicini. Di fatto, la soluzione è già evidente: due Stati per due popoli; uno Stato ebraico, Israele, e uno Stato arabo, la Palestina. Siamo partiti dagli Accordi di Oslo, e ora dobbiamo superare il divario che ancora rimane. Ciò è possibile, e il modo per farlo è attraverso il dialogo e i negoziati, in spirito di tolleranza, coesistenza e pace tra i popoli.
Quale, a suo avviso, può essere attualmente il ruolo di istanze internazionali quali le Nazioni Unite?
Le Nazioni Unite e altri organismi internazionali possono aiutare a stabilizzare il Medio Oriente, che sta vivendo importanti cambiamenti. Ritengo che i problemi del Medio Oriente siano esistenziali più che politici. La gente ha bisogno di cibo, di lavoro, di educazione, di assistenza sanitaria. La comunità internazionale può avere un profondo impatto in questi ambiti, aiutando i Paesi della regione a trovare soluzioni.
La crisi siriana è sempre più grave. Qual è l’impatto degli aspetti umanitari e quali sono le possibilità d’intervento della comunità internazionale?
Quella in Siria è anzitutto una crisi umanitaria. È drammatico assistere allo spargimento di sangue. Il popolo della Siria merita un futuro più luminoso, basato sulla libertà, l’indipendenza, i diritti umani e la prosperità. Ritengo che le Nazioni Unite dovrebbero dare alla Lega Araba un mandato per inviare un contingente di caschi blu per stabilizzare il Paese e consentire la formazione di un Governo di transizione. La Siria è un problema arabo, e la soluzione dovrebbe essere una soluzione araba, con il sostegno del mondo intero, compreso Israele. Il pericolo costituito dalle armi siriane, inoltre, è tra i più gravi nel mondo.
Anche Israele sta subendo gli effetti della crisi economica mondiale. Come trovare una via d’uscita all’attuale congiuntura negativa?
Israele ha affrontato la propria crisi economica in modo positivo. La via di uscita dalle attuali difficoltà economiche, non solo per noi, ma per il mondo intero, è quella che passa per la scienza e la tecnologia, la ricerca e lo sviluppo dell’alta tecnologia. Stiamo vivendo in un mondo nuovo, ma ancora gestito con una mentalità vecchia. Oggi il mondo è globale, e penso che molte soluzioni si trovino proprio dentro il mondo globalizzato.
Qual è lo stato delle relazioni tra cattolici ed ebrei dopo l’impulso ricevuto durante il pontificato di Benedetto xvi, con i suoi viaggi in Vicino Oriente, e quali prospettive si possono ancora aprire, allargando il dialogo stesso ai musulmani?
Le relazioni tra Israele e la Santa Sede e tra il popolo ebraico e i cattolici non sono mai state così buone negli ultimi due millenni. Continuano a migliorare costantemente, e spero che la mia visita e una futura visita da parte di Papa Francesco in Israele possano servire a rafforzarle ulteriormente. Il dialogo è fondamentale per ridurre le tensioni e migliorare la comprensione. Non importa se si tratta di ebrei, cristiani, musulmani o di credenti di altre religioni. C’è già un dialogo, ma certamente andrebbe allargato. Il Medio Oriente è costituito più da minoranze che da maggioranze. Dovremo rispettarle tutte; la gente ha diritto non solo all’uguaglianza, ma anche alla diversità. È questa la democrazia ai giorni nostri: l’uguale diritto a essere diversi.
Quali sono le responsabilità dei credenti e degli uomini di buona volontà di fronte all’intolleranza crescente verso le minoranze religiose?
Le persone sono libere di avere credenze diverse o di non averne affatto, ma devono rispettare gli altri. È questo un elemento fondamentale dei nostri valori. Il razzismo e l’intolleranza sono una malattia. La nostra responsabilità è di essere tolleranti verso gli altri, di mostrare loro amore, compassione e fratellanza. Papa Francesco è un esempio straordinario di questo amore per gli altri. Provo profondo rispetto per lui. Nel suo dialogo con il rabbino Abraham Skorka afferma che la torre di Babele è stata un errore perché coloro che l’hanno costruita volevano essere il più possibile vicini al cielo, ignorando però la gente. Il Papa suggerisce che dobbiamo essere modesti, rispettare il cielo ma anche amare le persone e tutti i loro interlocutori nel mondo presente.
Luca M. Possati, Osservatore Romano, 1 maggio 2013
(30 aprile 2013)