Le parole ricordate
Capita spesso, ed è stato così anche al Moked. Presentazioni accompagnate da effetti speciali, tabelle, grafici, figure, domande del pubblico via sms, tutti intenti a prendere appunti, chi a mano, sentendosi terribilmente antiquato, chi sullo smartphone o sul tablet. Poi arriva lo Shabbat: niente microfoni, niente supporti visivi (a parte le fotocopie della parashah settimanale), niente appunti. Eppure gli argomenti non sono meno leggeri: non solo lo studio della parashah, ma anche un incontro con l’ambasciatore d’Israele in Italia e una discussione sulle rivolte, da Bar Kokhbah al Ghetto di Varsavia. Alla fine ci accorgiamo che anche senza aver preso appunti ricordiamo bene le cose che ci hanno colpito, interessato, o anche lasciati perplessi (e il suggerito parallelismo tra le due rivolte è una di queste). In parte è un effetto dell’atmosfera miracolosa dello Shabbat, in cui si impara a non dipendere da telefonini e altri oggetti che dalla domenica al venerdì sembrano indispensabili; in parte ci si rende conto di quanto sia prezioso e insostituibile il confronto faccia a faccia, lo scambio di idee che nessun supporto tecnologico potrà mai sostituire al cento per cento. Certo, a scuola sarebbe più facile fare lezione con la possibilità di proiettare immagini e filmati e con l’accesso a internet; sarebbe più comodo se si potesse evitare di chiamare un allievo con bella calligrafia a ricopiare sulla lavagna un testo latino o un altro abile nel disegno a rappresentare il monte del purgatorio dantesco. Eppure alla fine, anche con mezzi poco adeguati, le frasi che ci hanno colpito pronunciate dai nostri insegnanti e compagni ci rimangono in testa per tutta la vita, dopo decenni ancora le citiamo e ne discutiamo. Quelle che non ci hanno colpito rimangono chiuse tra gli appunti che forse non riguarderemo mai più. A scuola come al Moked.
Anna Segre, insegnante
(3 maggio 2013)