Memoria, immaginazione e falsificazione

Alla scarsa eco che ha accompagnato le scarne celebrazione del 9 maggio, giorno della memoria delle vittime del terrorismo, risponde a modo suo un libro, appena uscito per i tipi dell’editore Viella, a firma di Arturo Marzano e Guri Schwarz e dedicato all’«Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982: il conflitto israelo-palestinese e l’Italia». In altra sede già se ne è parlato, e si tornerà a farlo, ma vale qui la pena fare qualche richiamo selettivo al testo, e a suoi contenuti, poiché si tratta di un’opera interessante e solida. Il fulcro della narrazione è, ovviamente, la tentata strage di trentuno anni fa, dove perse la vita il piccolo Stefano Gaj Tachè. Ma gli autori, a partire da questo efferato e non casuale episodio, compiono un’ampia ricognizione non solo sui fatti ma anche e soprattutto sui simboli e sui significati che trovano in quel giorno terribile una sorta di punto di coagulo. Non a caso il sottotitolo, che demanda esplicitamente al rapporto tra il conflitto israelo-palestinese e l’Italia,e in quest’ultimo caso alle forze politiche ma anche alla pubblica opinione, è la vera chiave di volta per capire quale sia l’obiettivo della riflessione. A pagina undici, infatti, Marzano e Schwarz la esplicitano affermando come: «il conflitto in Medio Oriente sia divenuto un punto di riferimento rilevante nello strutturarsi delle identità politiche e dell’immaginario collettivo in Italia». E ancora: «pensiamo cioè che le letture, spesso schematiche e faziose, di quel conflitto pluridecennale siano state funzionali all’elaborazione di narrazioni e rappresentazioni culturali che rispondevano a logiche tutte interne alla società, alla cultura e alla politica dell’Italia. Studiarle non significa confrontarsi con la realtà del conflitto israelo-palestinese, bensì indagare cosa quel conflitto significhi e abbia significato per gli italiani». La citazione si impone poiché non solo spiega il significato di un libro ma impone anche di rapportarsi con quanto gli studiosi più avvertiti vanno da tempo denunciando, ovvero che le rappresentazioni del conflitto hanno sopravanzato e sostituito, nell’immaginario comune, il conflitto medesimo, per così dire condannandolo a ripetersi come una sorta di partitura che risponde non più alle esigenze concrete dei soggetti in campo bensì alle aspettative di un’amplia platea di osservatori e di un pubblico più o meno disinteressato. Un disinteresse che va inteso nel senso che ci si aspetta che quel conflitto non finisca mai. Punto e basta. Non è certo il caso di dimenticare le questioni materiali e politiche che sono chiamati in causa né, tanto meno, di assumere fittizie e auto-assolutorie equidistanze. Le questioni di fondo non sono queste. Semmai, dinanzi all’inerzialità che contraddistingue lo scenario israelo-palestinese, contrassegnato da una sorta di esasperata coazione a ripetere, si impone uno sguardo sui meccanismi mentali e culturali, prima ancora che politici, che sono parte integrante di questo “gioco dei ruoli”. Non tanto (e solo) tra i protagonisti del confronto medesimo ma tra quanti lo osservano a distanza. Così tra i nostri connazionali. Ancora gli autori, al riguardo: «in relazione a quel conflitto si sono scatenate passioni e forme di partecipazione che hanno contribuito a segnare l’identità di diverse generazioni di italiani; lo testimonia la straordinaria varietà di associazioni e gruppi sorti in Italia a partire dal 1967 per prendere posizione su quella lunga e complessa vicenda politico-militare». Il trittico storico mette in relazione il 1967 (Guerra dei sei giorni), il 1977 (vittoria del Likud e rottura dell’egemonia laburista in Israele) e il 1982-85 (Guerra del Libano). L’attentato del 9 ottobre 1982 si inserisce in questa sequenza che non è solo pedissequamente cronologica ma, come Marzano e Schwarz si incaricano di comprovare, logica. In Italia questo lungo e unitario quindicennio, che corrisponde all’apogeo e poi al declino dei movimenti di trasformazione sociale di mobilitazione politica, segna anche il mutamento di atteggiamenti e di favori dell’opinione pubblica, quanto meno di una parte robusta d’essa, nei confronti di Israele e degli arabi palestinesi. Se nel primo caso tramonta la percezione diffusa che si sia di fronte ad uno Stato la cui recente storia e il cui presente testimoniano, e parimenti siano informati, a principi di equanimità e di giustizia, nel secondo si consolida l’identificazione con le istanze militanti di cui i palestinesi diventano i rappresentanti. È un passaggio importante, questo, poiché se consegna Israele ad una sorta di scacco perenne, dovuto principalmente alla falsa identità che i mezzi di comunicazioni le assegnano, dall’altro offre alle popolazioni arabe-palestinesi, fino ad allora considerate solo come segmenti di un’ampia platea di rifugiati e profughi, una sorta di vantaggio competitivo legato al ruolo di vittime per antonomasia. Quando si riflette su questo piano è bene ricordare sempre che non si ha tanto a che fare con dei soggetti storici in senso compiuto ma con le raffigurazioni che di esse vengono date e, passo dopo passo, sedimentate e condivise tra l’opinione pubblica. Il modo in cui l’interesse per certi eventi, mediato dai circuiti delle comunicazioni (in sé non neutri), e la condivisione di un giudizio su di essi vanno diffondendosi, gioca intorno all’indissolubile binomio tra carnefici e vittime. La storia parrebbe oramai essere fatta solo dei primi e dalle seconde, soprattutto se essa è intesa come una sorta di tribunale, cosa oggi molto in voga. Sia chi recita, per così dire, il primo ruolo, che demanda alla colpevolezza totale, sia chi riveste, invece, il secondo, che rinvia all’innocenza integrale, è parte di un teatro delle raffigurazioni che si sovrappone ai fatti, interagendo però con essi. Fino al punto, come proprio nel caso del conflitto israelo-palestinese, da arrivare ad alimentarlo nella sua intima costituzione, generando le premesse del suo stesso stallo. Giacché quel conflitto è la somma di tutte le cristallizzazioni possibili. C’è in esso un guazzabuglio di storie e memorie incrociate, nonché contrapposte, dove le distinte tifoserie, con il correlativo richiamo all’obbligo di osservanza di un’ortodossia di pensiero e di atteggiamento, pena l’ostracismo dai propri pari, operano con la potenza devastante di un pensiero tanto acritico quanto riproposto in maniera asfissiante. Già si è detto come la verità non necessariamente stia nel mezzo e che le facili equidistanze spesso possono racchiudere false ma anche comode ragioni, che rasentano la pavidità. Rimane il fatto che il gioco delle simbolizzazioni estreme è funzionale alla reiterazione del conflitto. Su questo gli autori ci offrono argomenti di riflessione. Dicendoci anche una cosa decisiva, ossia che per certuni più si simula di parlare di quella storia meno la si vuole per davvero conoscere. Poiché essa implicherebbe altrimenti il riconoscere che la complessità e il mutamento sono i due paradigmi che operano all’interno dell’uno e dell’altro campo, tra gli israeliani come tra i palestinesi, e che nulla può essere letto solo come un simulacro identitario. È questo, tra l’altro, il destino che ha conosciuto certa storiografia, laddove essa si è costituita, progressivamente, in un sistema di giudizio di valore pesantemente condizionante. Che lo storico possa reputarsi avulso dallo spirito dei suoi tempi è impresa impossibile. Che del medesimo evento possano coesistere anche interpretazioni diverse è non meno plausibile, essendo più di uno gli interessi (e i punti di vista) in gioco. Ma il volume, meritoriamente pubblicato da Viella, che da anni si contraddistingue come casa editrice attenta all’evoluzione della storiografia italiana, ci chiama a riflettere sulle ossificazioni delle idee, quand’esse da giudizi, in sé legittimi, si trasformano in pregiudizi. Non a caso, infatti, un intero capitolo – e non solo – del libro si sofferma sui facili slittamenti e sulle traslazioni che in quegli anni cruciali si compiono verso atteggiamenti variamente definibili come ispirati a stereotipi antisemiti. È in quel quindicennio, infatti, che il sionismo conosce la sua dannazione, trasformandosi, nella percezione di non pochi, da pensiero di emancipazione di una collettività in ideologia della vessazione di un’altra. Ed è da lì che bisogna ripartire, tra le altre cose, per riflettere sull’antisemitismo più recente, in Italia, in Europa e non solo.

Claudio Vercelli

(12 maggio 2013)