Del buon uso del passato

Ci accusano di essere dei “passatisti”, ossessivamente ripiegati su un passato fatto anche, e soprattutto, di dolori. Quasi al punto da essere inconfessabilmente gelosi di trascorsi tanto difficili quanto dolenti. In una sorta di elezione al contrario, dove in una pluralità di storie, in una molteplicità di traiettorie esistenziali, in un’infinità di pensieri si condensa la testimonianza del tentativo altrui di cancellare il proprio sé, quello dei propri congiunti, di ciò che ci sta intorno, dinanzi, oltre, prima e dopo. Altri, in una sorta di proiezione dissociativa, ci imputano l’egocentrismo della sofferenza, l’adozione di un paradigma, quello della vittima, che sarebbe fatto proprio per emendarsi da qualsiasi responsabilità storica. La storia cupa e terribile della deportazione e dello sterminio, a distanza oramai di molti anni da quando si compì e si concluse, rimanda anche a questo genere di considerazioni. Tanto più astiose dal momento che sono frequentemente interessate, ossia motivate da recondite ragioni – queste sì inconfessabili -, nel momento in cui invitano a normalizzare il passato, dicendo che in fondo poi troppo male non era. Lo fanno i negazionisti di ogni risma ma anche e soprattutto i banalizzatori di professione, i sacerdoti del triviale (oggi molto diffusi), del pari ai sacralizzatori acritici di una storia immobile, soprattutto quelli che pensano che basti un’emozione e via. Come se invece quel passato non fosse impresso nelle carni di chi si è congedato da noi a suo tempo, in quei tempi, o lo sta facendo adesso, con passi lievi che a noi risultano invece possenti. Come se quei trascorsi non pesassero sulla coscienza di tutti, in quanto europei. Come se in fondo si fosse trattata di una specie di partita, carnefici contro vittime, nella quale vinceva la squadra più forte. Nel qual caso, mi viene da chiedere, chi ha poi vinto? Era previsto un recupero o uno spareggio? I viaggi della memoria nei luoghi dell’assassinio di massa, che negli ultimi anni hanno conosciuto una notevole diffusione, temperata in parte solo dalla cronica mancanza di risorse e di fondi da parte delle amministrazioni pubbliche, sono divenuti un passaggio ineludibile nella formazione dei giovani e, in una qualche misura, nella riflessione degli adulti. Almeno tra quanti, soprattutto i secondi, non intendano sottrarsi a un confronto duro, prima di tutto con se stessi, ovvero con la propria coscienza. L’Europa che conosciamo è nata anche lì, da quelle ceneri. L’ebraismo italiano, come quello europeo, si è assunto nel corso del tempo il ruolo di testimone collettivo. Lo ha fatto non per una qualche scelta sempre necessariamente consapevole, tanto meno obbligata, ma poiché prima di tutto così hanno disposto le cose. Poi è sopravvenuta l’esigenza, per così dire, di narrare se stessi. Non si tratta, infatti, di elezione e neanche di “dovere” (quest’ultimo vale come istanza morale di natura individuale, nei confronti dei propri congiunti) ma di una condivisione. Le comunità sono state quindi attivissime nel preservare un sapere collettivo, quello dell’infamia dei campie dei regimi politici che li hanno costruiti. Tra di essi il fascismo. Nei giorni scorsi si è celebrato la ricorrenza della liberazione del Lager di Mauthausen, con la partecipazione di un grande numero di persone (non chiamiamolo “pubblico”, per cortesia: comunque lo si voglia leggere, non siamo in presenza di un evento giacché andare in quei luoghi non è fare una “gita” e neanche vivere un’esperienza tra le altre, finita la quale tutto torna come prima). Nel mentre i lettori di questo newsletter leggeranno queste righe io sarò a Mauthausen, e in alcuni dei campi collegati, insieme ad un centinaio di ragazzi, perlopiù maturandi, vincitori dell’annuale progetto di storia contemporanea che il Consiglio regionale del Piemonte promuove da più di trent’anni. Non è per me la prima volta. C’è poco da fare: tutte le volte che mi dicono che devo partire per un viaggio della memoria vorrei farne a meno. Entrano in gioco tante considerazioni. Alcune emotive, altre di più bassa cucina. In questo secondo caso conto i giorni di lavoro che rimangono scoperti, alle ore (poche) di riposo che così saltano, alle urgenze che si assommano in agenda, agli impegni che sono in tale modo costretto a rinviare nei giorni successivi al rientro, che si fanno in tale modo affollati. Sono restio a viaggiare, in realtà. Non di meno è da quindici anni che accompagno i viaggi del Consiglio regionale. All’approssimarsi della partenza è però come se un fremito si facesse strada. E allora soprassiedo da qualsiasi altro ordine di considerazione. Se non mi avessero chiesto di fare lo “storico di complemento” (così mi considero, e non altro) mi sentirei quasi offeso. Ragion per cui preparo la borsa, mi prendo gli strumenti di lavoro (carte, mappe, testi, il portatile) e mi approssimo al pullman che ancora una volta mi porterà in uno di quei luoghi. Il Piemonte, le sue istituzioni, hanno lungamente lavorato sulla memoria della deportazione. Con esiti non solo meritori ma, oserei dire, quasi eccezionali. Non si tratta di vantare improprie primazie, tanto più in un tornante così sofferto quale quello che stiamo vivendo, ma di capire quale possa essere, d’ora innanzi, un buon uso del passato. Il nesso tra ricordo privato, istituzioni pubbliche, attività didattiche e trasmissione della storia è complesso. Va rimodulato di volta in volta, quanto meno di generazione in generazione. Per la prima volta quest’anno andrò in un Konzentrationslager senza un testimone. Farò tutto io, in buona sostanza. Con quasi cento ragazzi, per l’appunto. Un po’ la cosa mi spaventa, non lo nascondo. È come una sorta di macigno, che mi sta sulla testa, e che cerco di fare sì che non precipiti su di me e sui giovani che mi accompagnano. Vengono con i loro entusiasmi, con spirito di condivisione, a volte anche spensierato, con le loro legittime ingenuità, con tante domande, a volte con qualche facile risposta che va confutata con pazienza. Ma sarò solo, questa volta. Lo sarò sempre di più. E non posso nascondermi dietro il mio mestiere, come se questo mi permettesse di prendere le distanze da ciò che, invece, sembra quasi chiamarmi a sé. Siamo entrati in un’epoca completamente nuova. Mi accorgo che a volte parlo non tanto della deportazione in sé ma dei sopravvissuti. Quelli della mia Regione ho avuto modo di conoscerlo bene, quando viaggiavo con loro. Sono volti che affollano la mia memoria di uomo nato diversi lustri dopo quei fatti. Siamo entrati in un’epoca di post-memoria. Dobbiamo lavorare su questo aspetto. Ne va della dignità di ognuno di noi. Che poi coincide con il nostro futuro.

Claudio Vercelli

(19 maggio 2013)