settanta…

L’episodio della scelta dei settanta anziani che dovranno affiancare Moshè nella gestione del popolo contiene elementi tali da suscitare più di qualche interrogativo. Due dei settanta prescelti, Eldàd e Medàd, non si presentano alla chiamata presso la tenda del convegno, preferendo rimanere nell’accampamento (il Talmùd, nel trattato di Sanhedrìn, spiega che non hanno voluto mettersi in mostra), ma ciò nonostante sono investiti dallo spirito profetico e si mettono a profetizzare nell’accampamento. Yehoshùa‘, impressionato dalla cosa, suggerisce a Moshè di intervenire con una certa forza; ma Moshè rifiuta, auspicando che un simile spirito di profezia possa investire ogni singolo ebreo. Già visto in quest’ottica, l’episodio è tale da trasmetterci insegnamenti validi per ogni generazione: come Moshè, nessuno deve essere geloso delle sue prerogative, chi ha un incarico di responsabilità deve sapere che le qualità che lo hanno portato ad avere quel luogo possono non essere solo sue. Ma anche altri aspetti hanno qualcosa da insegnarci. Il suggerimento di Yehoshùa‘, come abbiamo detto, è preoccupato: “Adonì Moshè, kela’èm!”, “Signor mio Moshè, imprigionali!”. Perché mai due persone che manifestavano i sintomi di uno spirito divino avrebbero dovuto essere imprigionati? Che cosa c’era di sbagliato nel loro profetare? Il Midràsh dice che il contenuto della loro profezia avrebbe potuto essere destabilizzante: Moshè morirà e Yehoshùa‘ porterà Israele alla sua terra. Era esattamente ciò che sarebbe successo in realtà, ma in un momento di crisi qual era quello che stavano vivendo, questa verità avrebbe potuto suscitare timori incontrollabili; da qui l’urgenza della richiesta di Yehoshùa‘. Ma Moshè non teme per la sua posizione: ha una tale fiducia in Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ che ritiene che il dono profetico possa avere solo effetti positivi, e nessuno che sia dotato di spirito profetico può essere geloso della presenza del medesimo spirito in chicchessia. Esiste un altro piano di lettura dell’avvenimento. Rashì interpreta il verbo “kela’èm” in maniera diversa dal suo senso più letterale; nel Midràsh da lui riportato, il suggerimento di Yehoshùa‘, anziché essere di forte pressione e di durezza, è frutto di una sottile scaltrezza: Moshè – dice Yehoshùa‘ – se questo spirito divino che agita Eldàd e Medàd è tale da essere destabilizzante, puoi dare loro degli incarichi di pubblica utilità, e smetteranno da soli di profetizzare. In altri termini, se l’esperienza del contatto col divino è tale da portare fuori dal mondo sensibile, solo la necessità di preoccuparsi di cose materiali può evitare di far perdere il senso del reale. Vivere questo mondo è una necessità assoluta; l’estasi pura, l’astrarsi dal mondo terreno, non fa parte della più genuina espressione dell’Ebraismo, che resta un sistema di vita legato alla vita materiale, quotidiana: anziché portare all’elevazione al di là del mondo, bisogna portare l’elevazione nel mondo.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana
(23 maggio 2013)