In cornice – Natura

Ci sono passi della Torà che sollecitano particolarmente l’attenzione del critico d’arte. Uno di questi si trova nella parashà che abbiamo appena letto, al capitolo 11 del libro di Bamidbar, in cui i nostri padri si lamentano per essere usciti dall’Egitto. “Ci ricordiamo del pesce che in Egitto potevamo mangiare liberamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora il nostro corpo è stordito, non vi è nulla ai nostri occhi se non la manna e la manna… aveva l’aspetto simile a cristallo”. I nostri padri avevano ancora negli occhi la visione di una natura morta degna del miglior Giuseppe Recco, di una composizione molto varia per forma e per tonalità: il pesce (multicolore), i cetrioli (verdi, lunghi e corti), i cocomeri (rossi, tondi e grandi) etc. La manna era tutt’altra cosa: potenzialmente sarà stata ottima di sapore, ma da un punto di vista estetico, era trasparente, piatta. In altri termini, mi pare, anche se non trovo commenti simili dai Maestri, che i nostri padri soffrivano di un problema di forma, di estetica, che nascondeva una questione di contenuto. Erano cioè ancora legati alla civiltà egizia multicolore (e multietnica) in cui vedevano di tutto e in cui il colore aveva importanza centrale: nelle tavole imbandite ma anche nelle opere d’arte, come è chiaro a chiunque visiti un museo egizio. Per i nostri padri, si trattava di abbandonare l’apparenza variopinta egizia per concentrarsi sul sapore, su quello che non appare, sull’astrattismo ebraico. Un passaggio significativo, che voleva dire liberarsi dell’Egitto che era in loro.

Ma quel passo di Bamidbar, permette anche di riflettere sull’essenza delle nature morte preottocentesche. Da un lato abbiamo quelle floreali, spesso di area nordica-fiamminga, che dietro a un’apparenza variopinta nascondono un’essenza moralistica, da capire in base al significato attribuito a ciascun dei fiore dipinti. Dall’altro lato ci sono quelle che sarebbero più piaciute ai nostri padri, ricche di verdure, selvaggina, frutta etc., che hanno un valore soprattutto estetico e decorativo, e che mirano a stupire il pubblico con effetti speciali di colore e forma. Talvolta per darsi un po’ di tono, l’artista inseriva anche qualche riferimento al tempo che scorre (un teschio, una clessidra), come a dire che oltre all’estetica bisogna pensare anche al fatto che quella bellezza passa presto e rimangono solo i grandi principi, Dio, la famiglia. L’accento è però sull’estetica. Così gradualmente i pittori di quella natura morta si sono specializzati, fra quelli di selvaggina, di mare, di frutta etc. proprio perché quel che contava era la bravura a creare effetti. Un po’ quello che piaceva ai nostri padri.

Daniele Liberanome, critico d’arte

(27 maggio 2013)