Schelach…

L’invio di dodici uomini ad esplorare la Terra d’Israele, le loro relazioni contrastanti, la reazione del popolo, la minaccia e la punizione divina, alcuni precetti, sono gli argomenti di cui tratta questa ricca Parashà. Ma l’argomento che personalmente mi colpisce sempre è espresso in una breve frase di quattro parole: “Wa-yò’mer HA-SHÈM: Salàchti ki-dvarékha”, “Disse il Signore: Ho perdonato secondo la tua parola”. In quel momento il popolo d’Israele era collettivamente passibile di distruzione totale, tanto grave era la sua colpa – e tuttavia un uomo ha potuto modificare il decreto divino. L’uomo ha quindi la possibilità di far cambiare idea al Creatore? Su questa domanda s’innesta un altro problema. Subito dopo l’annuncio di una punizione meno catastrofica di quella precedentemente minacciata, e ciò a seguito dell’interventodi Moshè, la Torà dà regole relative ad offerte farinacee, libagioni di vino, e Tzitzìth. A prima vista sembra mancare qualsiasi nesso fra le due cose, e soprattutto non si capisce che cosa c’entrino qui delle regole, per di più intervallate dal doloroso episodio di una manifesta profanazione dello Shabbàth. Tuttavia è proprio caratteristico della Torà seguire questo modello compositivo: Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ minaccia, e subito dopo impone dei precetti, ad indicare che la loro osservanza fa sì che l’uomo possa – come Moshè dopo la ribellione a seguito della missione degli esploratori – modificare le Sue decisioni. Solo se osserviamo le mitzwòth che Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ ha voluto emanare per educarci a rendere il mondo migliore, noi siamo degni di interagire con Lui, di collaborare con Lui e quindi anche di influire su di Lui. Ed è significativa anche la scelta delle mitzwòth che vengono qui indicate: quella dello tzitzìth e quelle relative a pane e vino. Il loro significato è profondissimo. Lo Tzitzìth fa parte del vestiario; è quindi la consacrazione della vita quotidiana, cioè di ogni momento della vita. Il pane è l’alimento per eccellenza; è la consacrazione dell’alimentazione, dell’istinto primordiale di sopravvivenza, attraverso un alimento che viene dalla natura, ma che senza la collaborazione delle mani dell’uomo, delle sue conoscenze, non è fruibile in natura. Il vino, elemento che in ogni civiltà è collegato ad una valenza di sacralità, consacra e regola la gioia. In altri termini, ciò che questa Parashà ci indica è che solo un corretto comportamento nella nostra vita quotidiana (ma tale da viverla nel mondo concreto, non nell’astrazione da esso) ci fornisce gli strumenti per influire sulla volontà divina e volgerla a favore dell’umanità. La maledizione o la benedizione divina sono in mano nostra: a noi sapere che cosa far intervenire.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana

(30 maggio 2013)