I giustiziati spinsero una donna alla morte
Si sgretola l’operazione per accusare Levi

Completando, con un magistrale intervento sulla Prima pagina della Stampa di oggi, il lavoro critico aperto su Pagine Ebraiche dello scorso mese, Alberto Cavaglion getta nuova luce sulla frettolosa operazione condotta dallo storico Sergio Luzzatto che con “Partigia” pone sul banco degli accusati Primo Levi e i suoi compagni partigiani. Documenti finora inediti e ignorati dall’autore di “Partigia” consentono una lettura più chiara di quanto accaduto.
Si apprende ora che i due giustiziati spinsero fra l’altro un’anziana donna ebrea che si era rifugiata in Valle d’Aosta alla disperazione e alla morte. E l’ansia di proiettare a tutti costi un’ombra sul Levi partigiano emerge con maggiore chiarezza.

Nel diario di un curato la chiave del “segreto brutto”

Il libro di Sergio Luzzatto su Primo Levi – Partigia, pubblicato da Mondadori poco più di un mese fa – ha riaperto una pagina di storia e spalancato una polemica storica su un episodio della Resistenza soltanto in parte sconosciuto. Primo Levi, lo scrittore simbolo della deportazione degli ebrei, un’icona letteraria e civile nel mondo intero, custodiva un «segreto brutto». Lo stesso Levi adopera questa espressione nel Sistema periodico (1975), dove confessa – trent’anni dopo i fatti e in anni in cui non era certo agevole rivelare questi retroscena – di essere stato costretto dalla propria coscienza insieme con i suoi compagni a «eseguire una condanna ». Cosa che lasciò lui e i suoi «distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse». Luzzatto ha lavorato per anni intorno a questo segreto e in Partigia ne ha svelato contorni e protagonisti, dopo aver interrogato testimoni e consultato le carte. Ma come lui stesso ammette, senza arrivare a una conclusione certa del perché ai due giovani partigiani fucilati «con metodo sovietico» (una raffica nella schiena) era stata inflitta una condanna così grave. La conclusione dello storico (pag. 89) è che «le fonti disponibili» autorizzano a ritenere «smisurata» la pena rispetto all’entità delle colpe. Insomma i due (Fulvio Oppezzo, 18 anni, di Casale, e Luciano Zabaldano, 17, diTorino) sarebbero stati fucilati non proprio per «futili motivi», ma quasi. Una conclusione che ha aperto una controversia intorno all’esperienza partigiana di Primo Levi e, in definitiva, gettato un’ombra sulla sua figura. Ma è proprio così? Davvero non erano rintracciabili altre «fonti storiche »? Nella biblioteca regionale di Aosta e in quella comunale di Brusson si può facilmente consultare un libretto ignorato da Luzzatto e, finora, anche dagli altri che si sono occupati del caso. Si tratta della «petite chronique» del curato Adolphe Barmaverain, Demi-siècle de vie paroissiale à Brusson, (Imprimerie Valdôtaine, 1970) dove abbiamo trovato la seguente nota: «Le 17 décembre 1943, à Fontaines, en les domiciles de Révil Cécile, est trouvée cadavre MmePolkorny Elsa, 65 ans, de Vienne (juive) suicidée ensuite de vexation e de menaces de partisans. La voix courut que ces partisans auraient été fusillés par leur chef venu à la connaissance de ces vexations». Il parroco di quei luoghi ci racconta dunque un altro pezzo della storia mancato a Luzzatto: i partigiani furono fucilati dal loro capo perché avevano vessato e minacciato un’anziana ebrea viennese rifugiata in Valle al punto di spingerla al suicidio. Idiari dei curati dimontagnasono fonti primarie per gli storici e stupisce che Luzzatto non l’abbia cercato per la sua indagine pur dettata – dice lui – da una personale «ossessione» per la vicenda di Primo Levi. Con ciò non pretendiamo di aver scoperto la verità su una vicenda così tormentata e segreta. A distanza di tanti anni, con i residui testimoni che lo stesso Luzzatto ha interpellato, o immemori o tuttora reticenti, in assenza di altri documenti attendibili, non è affatto sicuro che il diario risolva il caso, macerto apre una prospettiva diversa. Non solo l’esecuzione dei due, per quanto crudele, non appare più tanto smisurata: il motivo non era certo «futile» e probabilmente anche tutto il travaglio che Levi rivela nel racconto del Sistema periodico va letto in altro modo. Allora, rivediamo un po’ i fatti. Primo Levi, ventiquattrenne, il 9 settembre ’43 era sfollato da Torino a Saint-Vincent. Pochi giorni dopo sarà raggiunto dalla madre e dalla sorella Anna Maria. In seguito si trasferiranno ad Amay, vicino al Col de Joux, tra Saint-Vincent e Brusson, dove, comeè stato bene studiato in anni passati, già prima dell’8 settembre avevano trovato rifugio molti ebrei stranieri, per lo più croati,maanche tedeschi, austriaci. Vivevano nella clandestinità e dunque erano esposti a vessazioni. Levi entra in contatto con altri giovani torinesi anch’essi sfollati, tutti appartenenti al suo giro di amici. E danno vita aunapiccola formazione che si propone di aderire a Giustizia e Libertà. E’ un’esperienza breve, che in toni tutt’altro che apologetici lo stesso Levi evoca nel primo capitolo di Se questo è un uomo: «Mancavano i contatti, le armi, i quattrini e l’esperienza per procurarseli, mancavano gli uomini capaci… ».Quelle settimane sono inoltre segnate da contrasti con una più numerosa formazione di giovani provenienti da Casale Monferrato, ben diversi dal piccolo gruppo di intellettuali e borghesi torinesi di cui faceva parte Levi. Tra i casalesi vi erano personaggi equivoci, lo racconta Luzzatto, includendo tra essi anche uno dei due che saranno fucilati, Fulvio Oppezzo, una testa calda, nipote e figlio di gerarchi fascisti, fascistissimo egli stesso, finito chissà perché tra i partigiani. Tutto precipita nella notte del 13 dicembre. In un rastrellamento la banda di Amay viene catturata grazie a due infiltrati e all’opera di un sinistro figuro di doppiogiochista, Edilio Cagni, braccio destro del prefetto fascista di Aosta Cesare Augusto Carnazzi. Pochi giorni dopo anche la banda dei casalesi è costretta a disperdersi e verrà eliminata. Levi, catturato, viene trasferito ad Aosta, si dichiara ebreo e viene inviato a Fossoli e poi ad Auschwitz. Nel 1973 Levi pubblica sulMondo un racconto intitolato Oro, poi confluito due anni dopo nel Sistema periodico, nel quale è contenuta per la prima volta la rivelazione del «segreto brutto». Più tardi, nella poesia Partigia, che dà il titolo al libro di Luzzatto, Levi sembra alludere nuovamente a quel fatto: «Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno». Senza entrare nel dettaglio, né mai rivelare ilnomeo i nomi di coloro che avevano subito la condanna, Levi racconta quanto era accaduto soltanto tre giorni prima del suo arresto: «Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente. Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’in giù». «Avarizia narrativa», insinua Luzzatto, il quale dimentica però di dare una spiegazione convincente a quell’ «eravamo stati costretti dalla nostra coscienza»: una frase che, riletta adesso, con il diario del curato in mano, assume un diverso significato. Il fuoco della vicenda non è soltanto la fucilazione di Oppezzo e Zabaldano, ma si aggiungono anche le vessazioni e le minacce con le quali i due avevano spinto un’anziana ebrea al suicidio. E c’è da immaginare che queste pratiche fossero piuttosto diffuse tra quegli acerbi partigiani che Levi, nella prima edizione einaudiana di Se questo è un uomo (1958) descrive così: «… un diluvio di gente squalificata, in buona e in mala fede…». E, d’altra parte, ancora Levi, nella poesia Epigrafe (pubblicata nel 1984), scritta sul modello di Spoon River, attribuisce a uno dei due giustiziati queste parole: «Da non molti anni qui giaccio io, Micca partigiano / spento dai miei compagni per mia non lieve colpa». Il diario del curato di Brusson conferma: non fu certo una lieve colpa e francamente non si capisce perché Luzzatto – pur citando la poesia – insista nei quasi «futili motivi». E così pure la frase «conforme a giustizia», con cui Levi, sempre nel primo capitolo di Se questo è un uomo, chiude innegativo il bilancio della sua esperienza partigiana, andrebbe adesso riletta in modo più completo, restituendo a ciascuno il suo. Invece anche questa viene citata da Luzzatto in esclusiva funzione di supporto alla sua tesi e riferita unicamente all’esecuzione dei due partigiani, quando andrebbe messa in rapporto a quell’intera esperienza: «A quel tempo, non mi era ancora stata insegnata la dottrina che dovevo più tardi rapidamente imparare in Lager, e secondo la quale primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga; per cui non posso che considerare conforme a giustizia il successivo svolgersi dei fatti». Certo Levi avrebbe certo potuto, e forse dovuto, gridare di più. Ma ammissioni di colpa così esplicite non risulta siano state scritte, nemmeno da protagonisti della Resistenza che avevano avuto responsabilità maggiori delle sue.Negli Anni Settanta il tema della violenza era un vero tabù. La storia mitizzata della lotta di Liberazione aveva completamente obliterato il fatto; i due giustiziati vennero considerati «martiri», anzi i primi due caduti in Valle d’Aosta, naturalmente per mano dei nazifascisti e non certo per fuoco amico. Il diario del curato non scioglie l’enigma, ma dirada la nebbia e costituisce una pista concreta, rispetto a mere illazioni. Apre nuovi scenari e, soprattutto, chiarisce il contesto in cui Levi venne a trovarsi. Il vero lavoro rimane adesso da iniziare. Domande numerose attendono risposta. Barmaverain non dice quando sia realmente morta l’anziana ebrea. E poi: chi era Elsa Polkorny? Il suo fu vero suicidio? Levi era a conoscenza delle vessazioni che aveva subito Madame Polkorny e che avrebbe potuto subire sua madre, anch’essa sfollata al Col de Joux? Sono questioni concrete, su cui adesso occorrerà indagare senza pregiudizi. Riaperta una pagina di storia, in anni in cui i tabù sono (finalmente) caduti, si può lavorare liberi da tutti i sospetti, compreso quello di aver voluto colpire l’icona di Primo Levi con l’obiettivo di mettere sul banco degli imputati, un santo beatificato da una storiografia di chierichetti devoti. E evitare operazioni editoriali dettate da questa smania di rimpicciolire tutto, che purtroppo domina il nostro tempo, «quell’inqualificabile piacere», di cui parlava Robert Musil, «che consiste nel vedere il bene abbassarsi e lasciarsi distruggere con meravigliosa facilità».

Alberto Cavaglion (La Stampa, 2 giugno 2013)

La giustizia dei Partigia
Non è strano che escano due libri su Levi partigiano, a breve distanza l’uno dall’altro? Frediano
Sessi (Marsilio) lo ha recensito Bidussa sull’ultimo numero di questo giornale, traendo conclusioni che non condivido, per cui ritengo opportuno ritornare sul tema, esaminando Partigia di Sergio Luzzatto. L’episodio che suscita così tanta attenzione è noto da anni. Si tratta della condanna a morte inflitta a due giovani partigiani dalla banda cui Levi apparteneva in valle d’Ayas. Silenzio colpevole? Avrebbe certo potuto, e forse dovuto gridare di più, ma i suoi censori dimenticano due cose: primo che Levi non amava gridare, secondo che è morto quando il clima era fortemente condizionato dalla ideologia (il libro di Pavone esce soltanto quattro anni dopo la morte di Levi). Alcune verità Levi riuscì comunque a dirle. Nel racconto Oro (Sistema periodico) scrive che da quella esperienza lui e i suoi compagni erano usciti “distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi”. Ammissioni di colpa così esplicite non ne ricordo prima del 1973 (quando il racconto fu anticipato, credo non a caso, sulla meno ideologica delle riviste in circolazione, il Mondo). Nella poesia che dà il titolo al libro di Luzzatto, Levi ammette che nel 1943 “ognuno [era] nemico di ognuno”: tanto coraggio mancò a molti “partigia” che fino all’ultimo negarono la natura fratricida del conflitto. Tutto ciò oggi non interessa a nessuno, quello che importa è togliere “il peplo della tragedia” al santino, per dirla con Luzzatto. Operazione legittima e non nuova. A suo tempo Cases dovette fronteggiare le intemperanze dei Quaderni piacentini ostili a un Levi politicamente “moderato”, sostenitore del centro sinistra. Oggi le intemperanze riguardano la complicità di Levi nella fucilazione di partigiani. I tempi sono cambiati. Circa trecento pagine ricostruiscono le origini della Resistenza in valle d’Aosta, con digressioni e cammei su figure che non c’entrano nulla con il dramma della morte dei due ragazzi. Nell’elenco dei personaggi principali figurano, non si sa perché, Ada della Torre ed Emanuele Artom. Non è invece registrato l’autore, presente ovunque, mentre scopre da turista le bellezze di Torino o s’aggira per i luoghi della tragedia scortato dalle sue allieve e da storici autorevoli come Richard Cobb chiamati in causa per avvalorare ovvietà: per esempio che far nascere la Resistenza ad Amay fosse difficile (p. 28). Come se altrove sia stato facile. Cerca di trattenere il suo livore contro la borghesia ebraica torinese, a lui invisa e sempre contrapposta alla sregolata innocenza dei casalesi, ma non riesce a difendersi da se stesso. Ad un certo punto si lascia scappare che tra alta e bassa valle forse era in atto uno scontro etnico fra “ebrei torinesi e goym casalesi” (p. 318). Non dice che la discussione sulla violenza partigiana ha fatto passi ú–– Daniel Reichel Il silenzio è uno dei grandi imputati del secolo scorso. Di fronte alle barbarie nazifasciste molte voci si sono levate ma altrettante sono rimaste mute. Un silenzio di cui si sente tuttora il rumore e di cui la storiografia sta cercando di ricostruire i motivi. Sul banco degli imputati eccellenti, la Chiesa romana: l’ambiguità dei vertici della Curia nel rapporto con i totalitarismi neri è un dibattito aperto e su questi binari possiamo inserire Ostilità convergenti, il recente studio della storica Elena Mazzini. Una ricerca che analizza la connessione tra la stampa diocesana, i vertici della Chiesa cattolica e l’antisemitismo. “L’obiettivo qui proposto – si legge nell’introduzione della ricerca finanziata dall’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione in Italia – si sostanzia di una prima indagine condotta sull’opinione pubblica cattolica italiana e in particolare su uno dei suoi canali comunicativi più diffusi quale fu il giornalismo diocesano”. Termometro della società quando non potente strumento per influenzarla, il giornalismo di matrice cattolica racconta le grandi criticità del rapporto tra le istituzioni vaticane, le diocesi e il fascismo. Dall’analisi della Mazzini emerge un quadro di grande ambiguità: la critica a razzismo, antisemitismo e altre violenze appare su carteggi ufficiali ma interni mentre il pubblico sfoglia settimanali intrisi di pregiudizi antiebraici e attacchi agli ebrei bolscevichi, deicidi, dominatori del mondo e via discorrendo. Il confronto che la Mazzini fa tra la documentazione emersa dagli archivi vaticani e i quaranta giornali diocesani analizzati racconta di una realtà che sembra schizofrenica. Questa dualità emerge con forza dopo il discorso di Pio XI, nel luglio del 1938, contro il nazionalismo esagerato. “L’universo giornalistico che ho esaminato insieme alla maggioranza dell’episcopato italiano non scelse Pio XI – scrive la storica – Optò piuttosto per un atteggiamento unico rispetto al razzismo e all’antisemitismo di Stato che si è configurato sostanzialmente conforme all’ideologia discriminativa fascista”. Ostilità convergenti muove la sua analisi in periodo storicamente breve. Mazzini infatti prende in esame il biennio 1937-1939, passando in rassegna l’enciclica Mit Brennender Sorge sul razzismo nazista del marzo del 1937 e chiudendo con la morte del pontefice del 10 febbraio 1939. Lo studio cammina lungo una strada pressoché inesplorata, muovendosi tra prese di posizioni papali, omelie di vescovi e articoli di giornali. L’idea, come annunciato avanti, partiti dalla controversia Pavone- Vivarelli, che finge di ignorare, come non vuole misurarsi con l’assai più innovativa ricerca di Capogreco sul partigiano Facio, un calabrese che nell’appennino tosco-emiliano fu eliminato dopo sommario processo dai compagni (e poi insignito di medaglia in quanto caduto “per mano del piombo nemico”), ma non nei primi giorni caotici delle origini del movimento partigiano. Di minuzie da storia evenemenziale il nostro non si cura, lui vola in alto, conscio di avere dalla sua parte gli storici montagnardi. La morte dei due casalesi avviene il 9 dicembre, tre giorni prima del rastrellamento che porterà via Levi. Luzzatto dubita delle testimonianze ex post, bisogna sempre esercitare la critica delle fonti, ma è proprio da escludere che i due giovani prima di essere eliminati non abbiano davvero minacciato di denunciare ai repubblichini i loro inquisitoririvali? Nemmeno tre giorni dopo Cagni, la spia, metterà in atto la minaccia con il risultato che sappiamo e che non conobbe distinzioni etniche, perché ebrei torinesi e goym casalesi furono sgominati in poche ore. Basta aver letto Meneghello e Fenoglio per capire che in simili situazioni, soprattutto nelle prime settimane dopo l’8 settembre, non si andava per il sottile. Certo, Levi rimase sconvolto e la sua opera ne porta vistosi i segni. Luzzatto dimostra alcune coincidenze testuali, ma sorvola su qualsiasi dettaglio che deponga contro la sua tesi. Nella poesia Epigrafe suggerisce che a parlare siano i due ragazzi uccisi, ma Levi scrive che essi morirono “per non lieve colpa”. Siamo proprio sicuri che mentisse anche a se stesso? Luzzatto coglie nelle pieghe di Se non ora, quando? un brandello della ferita antica, ma la sua ossessione, non sempre sorretta da amore, come vorrebbe il Franzen dell’epigrafe, deborda, oltre ogni decenza, là dove definisce uno “shabbat senza riposo” (sic) quello di Levi testimone al processo del dopoguerra (pp. 217 e 238). Cosa di tutte la più grave è quando insinua (p. 311) che nel ricostruire l’agonia di Sòmogy in Se questo è un uomo Levi sia preda della sua ossessione partigiana. Qui la misura diventa colma. Per fortuna l’inconscio fa brutti tiri. Partigia inizia con la scenetta, in stile De Amicis, del piccolo Sergio Luzzatto, che prima di addormentarsi ascolta la madre leggergli brani dalle Lettere dei condannati a morte della Resistenza (curiosa contraddizione per un libro dedicato a due ragazzi condannati a morte non della, ma dalla Resistenza). A metà libro (p. 155) un altro bambino ci viene mostrato davanti a un’altra deamicisiana mamma. Legge i Tre Moschettieri mentre davanti a sé scorrono i partigiani di Colajanni che liberano Casale Monferrato. Quel bambino è Giampaolo Pansa, che quella mattina si trastulla con Porthos e con il sangue dei vinti. Gongolerà Pansa nel leggere questa storia di Resistenza. Noi, un po’ meno. Esplorando il cuore delle tenebre, Luzzatto ci avverte di non aver voluto indossare i panni di un Conrad dei poveri. L’Italia del 25 aprile che ci accingiamo a festeggiare soffre di molti mali, ma non ha bisogno di un Conrad dei poveri e dei due fratellini di Pansa non sa che farsene.

Alberto Cavaglion (Pagine Ebraiche maggio 2013)