Punire penando
Si tratta di una questione incredibilmente complessa. Come dobbiamo atteggiarci nei confronti di chi nega l’evidenza della storia, tanto più se ciò che viene omesso, rimosso, escluso, obnubilato, offeso, insultato e così via ha una potente ricaduta sulla coscienza civile della società? Che tale condotta sia ripugnante va da sé. Non è quindi il caso di esercitarsi, almeno tra chi già è sensibile a simili problemi, in rinnovate espressioni di rigetto. Dopo di che rimane il problema del “che fare”. Ancora una volta la questione scottante del negazionismo, in questo caso identificabile come specifica (e innovativa) fattispecie penale, riannodata immediatamente all’apologia dei crimini, alla diffusione delle ideologie razziste, all’esaltazione di ciò che nega l’unione a favore della violenta divisione, torna di attualità. Al Senato della Repubblica, in quest’ultima legislatura, da poco avviatasi, si sta discutendo di un disegno di legge in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra. In accordo con la legislazione europea al riguardo esso prevede, tra l’altro, la pena fino a tre anni di reclusione e diecimila euro di multa a chi si renda responsabile di «attività di apologia, negazione, minimizzazione» dei crimini in oggetto, oppure «propaganda idee, distribuisce, divulga o pubblicizza materiale o informazioni, con qualsiasi mezzo, anche telematico, fondato sulla superiorità o sull’odio razziale, etnico o religioso”», o – infine – inciti altri a commettere tali attività. Esplicito è il rinvio all’utilizzo delle nuove tecnologie, laddove è soprattutto il web a costituire il nuovo orizzonte cognitivo e, in immediato riflesso, operativo, e quindi politico, di chi pratica il razzismo. Si afferma, infatti, che il campo di applicazione rinvia alla peculiarità diffusa dell’«impiego diretto o interconnesso di sistemi informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero utilizzando reti di telecomunicazione disponibili». Il nesso tra odio razziale e negazionismo dei crimini diventa così immediato ed evidente. Più ancora, in tale saldatura, il suo riversamento sul piano della comunicazione “virtuale”, dove si è riscontrato che l’assenza di vincoli normativi sta rivelandosi particolarmente perniciosa, producendosi in una sorta di prateria del pregiudizio, in cui le “mandrie” della diffamazione, sotto le mentite spoglie della libertà di giudizio e di opinione, pascolano senza vincolo alcuno. Nella legislatura precedente il disegno di legge n° 3511, a firma di Amaldi e molti altri, si era concentrato, del pari, alla «modifica all’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in materia di contrasto e repressione dei crimini di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale». L’iter non era stato ultimato poiché era sopravvenuta la conclusione prematura della legislatura medesima, che aveva così anticipato la discussione, la votazione e la prevedibile approvazione delle norme in esso contenute. Alla base dell’urgenza del provvedimento legislativo veniva allora identificato «un profilo specifico molto importante: il contrasto di quelle forme di “negazionismo”, cioè negazione o minimizzazione, del fenomeno del genocidio degli Ebrei [sic! Con la maiuscola] e di altre minoranze etniche, che costituiscono uno degli aspetti più odiosi delle pratiche razziste». A fronte di una esigenza di armonizzazione del diritto comunitario e di adeguamento di quello italiano al primo si evinceva anche che «purtroppo, ancora di recente, episodi gravi di aggressione e denigrazione a sfondo razziale hanno portato l’opinione pubblica e in particolare la comunità ebraica, a chiedere nuova attenzione per contrastare in particolare quelle perversioni culturali e civili che portano a negare la persecuzione degli Ebrei [idem] e delle minoranze etniche e politiche da parte del regime nazista». Va tutto bene, leggendo queste ed altre cose. Chi ha a che fare con i negazionisti è tentato di tagliare il nodo di Gordio ricorrendo alla spada. La deliberata provocazione, gabellata per esercizio liberale, non sollecita reazioni che non siano quelle sanzionatorie. Non c’è nessuno spazio di interlocuzione con chi sfida, negandola, l’evidenza dei fatti. A stretto giro, non è tuttavia una questione che rinvii ai soli ebrei (e alle comunità ebraiche), evocando semmai il buon senso di tutti, nessuno escluso. Se saltano i codici di comprensione del passato vengono meno anche le ragioni della solidarietà e della coesione sociale nel presente. Chi sfida i canoni condivisi della comprensione e della condivisione semplicemente si mette fuori dal consesso umano, rischiando così una legittima ostracizzazione giudica, oltreché morale. Fin qui ci siamo, in altre parole. C’è poi il resto, tuttavia. Nessun riguardo per chi pratica la menzogna, abbiamo detto. Qualche considerazione in più, invece, su quali siano le strategie maggiormente efficaci per contrastare i lucidi deliri che, come ci è dato comprendere, chiamano in causa non solo piccole nicchie di apologeti dei crimini trascorsi e della falsificazione deliberata nell’oggi ma anche una platea, purtroppo più ampia, di scettici per professione e definizione. In quanto l’obiettivo del negazionismo non è tanto e solo negare ciò che è stato (lo sterminio) e neanche affermare, come sua contropartita, ciò che invece non è mai avvenuto (la creazione della cosiddetta “menzogna di Auschwitz”, ossia la generazione del “mito dell’Olocausto”), bensì di instillare la perplessità sistematica tra un’ampia folla di astanti. Fosse anche solo per alimentare il cosiddetto “beneficio del dubbio”. Poiché a ciò questi signori puntano e non ad altro. Troppo ambizioso, trattandosi di atto fideistico, è infatti lo sperare, per parte loro, che un grande numero di persona si converta da subito all’idea che mai si compì lo sterminio sistematico delle comunità ebraiche. Lo possono fare, senza troppe riserve, quanti hanno alle spalle una qualche vocazione ideologica precostituita. Ma per gli altri, la stragrande maggioranza, il negazionismo riserva un diverso programma. Quello, per l’appunto, di dare fiato alle trombe del dubbio. In genere il negazionista ha un modo di agire e di operare molto peculiare, assai accorto. Non proclama da subito l’inesistenza dell’evidenza ma cerca di trascinare il suo pubblico potenziale verso tale esito. Sussiste infatti una vera e propria strategia comunicativa che segue, invariabilmente, alcuni passi specifici. Da prima si richiama l’attenzione del pubblico sulla libertà di coscienza e di espressione, che sarebbero entrambe violate dalla tracotanza di chi intenderebbe imporre una “verità di Stato”, quella che deriverebbe dalla condivisione del medesimo giudizio di condanna sui crimini nazifascisti. (I quali, invece, non è detto che si siano consumati, afferma il negazionista.) A supporto di ciò si simula quindi la sussistenza di un dibattito sulla verosimiglianza della Shoah, tra “revisionisti”, così come i negazionisti amano definirsi, e la scuola cosiddetta “sterminazionista”, come i medesimi bollano apertamente la storiografia. In tale modo l’osservatore esterno, se ingenuo, ha l’impressione che esista effettivamente ancora una discussione in corso sulla possibilità o meno che l’Olocausto abbia avuto corso. Naturalmente le parole non sono mai casuali. Per i negazionisti si tratta di obbligare gli interlocutori alla difensiva, per costringerli a dovere comprovare l’evidente, dando così l’impressione che ciò non sia tale. Un po’ come dimostrare che la terra non è piatta, a fronte della percezione quotidiana, mediata dai sensi, che possa invece esserlo. Così facendo, viene giocato abilmente il duplice, nonché falso, paradigma del vittimismo (“siamo rifiutati dalla storiografia di regime”, dicono di sé i negazionisti) e della demistificazione (“siamo portatori di una visione nuova, integrale, della storia, che smaschera una menzogna tanto grande da essere impronunciabile”). La percezione che vogliono dare è quella di essere ingiustamente perseguitati perché impegnati a colpire gli interessi dei “poteri forti” e “occulti”. A tale guisa affermano che “il fatto stesso che ci contrastino è il riscontro della bontà delle nostre intenzioni, che sono tutt’uno con le nostre asserzioni”. Quanto su tale dispositivo mentale e subculturale, non importa in quale e quanta misura consapevolmente e intenzionalmente menzognero, possa incidere una legge e le sue norme, non è dato prevederlo a priori. Di essa possiamo cogliere la necessità civile così come anche l’urgenza morale. Non di meno, tuttavia, dobbiamo sapere che la lotta contro la manipolazione non si compie sul piano delle sole misure di contenimento per così dire razionale. Poiché se una norma di legge è infatti tale, il negazionismo, per la sua specifica natura, sfugge a una stretta raffigurazione secondo parametri tanto rigidi, sanzionabili penalmente. La stessa definizione di negazione si fa più impervia quando si entra nello specifico delle sue singole manifestazioni. Molto diffuse, peraltro. Non si tratta allora di cavillare su gratuite sottigliezze ma di cogliere la pesante sostanza del problema di fondo. Se la rimozione dolosa e il rifiuto rancoroso del passato, per offendere il presente, sono spesso identificabili, coincidendo deliberatamente con l’odio razzista, l’area dello scetticismo programmatico è invece assai più sfuggente, non prestandosi a facili sintesi. Va quindi detto che il negazionismo di ultima generazione, almeno quello che è venuto affermandosi negli ultimi vent’anni, con il consolidamento della comunicazione virtuale, punta le sue carte – e di riflesso la sua credibilità – su quest’ultimo piano inclinato. Laddove la linea tra diffamazione e opinione, ancorché quest’ultima tanto radicale quanto irritante, è decisamente tenue, destinata ad essere costantemente attraversata, a volte anche inconsapevolmente. Il positivismo giuridico che presiede all’idea di perseguibilità di un atteggiamento di tale genere non è detto che possa confrontarsi efficacemente con il fatto che il negazionismo sempre più è mentalità e sempre meno ideologia. Purtroppo.
Claudio Vercelli, storico
(2 giugno 2013)