Partigia – Prosegue il dibattito tra storici
Prosegue, con toni molto accesi, la discussione tra storici in merito a Partigia di Sergio Luzzatto. L’autore, sulle colonne della Stampa, risponde alle accuse mossegli da Alberto Cavaglion relativamente al suo lavoro d’indagine sul “segreto brutto” di Primo Levi e ad alcune tracce che sarebbero state volutamente omesse nella realizzazione dell’opera. Impossibile il nesso tra la fucilazione dei partigiani Oppezzo e Baldazzano e il suicidio di Elsa Polkorny, sostiene Luzzatto. Il quotidiano torinese ospita la controreplica di Cavaglion, che difende la veridicità delle tesi esposte e parla di ricostruzione parziale da parte dello storico genovese. “Il segreto brutto – scrive – era un segreto più ampio e l’averlo circoscritto al rimorso per l’esecuzione di due partigiani rimane il frutto di una manipolazione delle citazioni di Levi”.
Intanto sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche in distribuzione in questi giorni Gloria Arbib, autrice di una tesi di laurea sulla partecipazione ebraica alla Resistenza in Piemonte e Val d’Aosta, lavoro che l’ha portata a raccogliere le memorie di quei giorni dalla viva voce di tanti protagonisti, racconta della sensazione di disagio provata con la lettura di Partigia.
Se questo è un libro
25 aprile, giorno di festa per la Liberazione dal nazifascismo. Sulla prima pagina di un importante quotidiano nazionale spicca la pubblicità per un nuovo saggio sulla Resistenza: “Partigia. Una storia della Resistenza” di Sergio Luzzatto. Da quando nel 1981, più di venti anni fa, ho iniziato la mia personale ricerca sulla partecipazione di ebrei alla Resistenza nella zona del Piemonte e Val d’Aosta, ogni pubblicazione dedicata a questo tema attira la mia attenzione. Provo una sorta di ineliminabile fastidio pensando alla scelta dell’ufficio marketing della casa editrice di promuovere con opportunistica tempestività questo nuovo lavoro proprio il giorno in cui si celebra la vittoria sul nazifascismo. Tutto diventa evento, da consumare in fretta, prima che scada il giorno. Ma va bene anche questo – mi dico – se può contribuire a conoscere meglio la storia dei venti mesi di guerra partigiana in montagna, pianura o città. Va bene – mi ripeto – se questa nuova pubblicazione permette, soprattutto ai più giovani, di comprendere cosa è successo sotto il fascismo e nei mesi in cui uomini e donne si organizzarono per difendere la propria esistenza, i propri destini, per consegnare a se stessi e alle generazioni successive un futuro nel segno della libertà, in democrazia. Può essere utile – continuo a ripetermi – far capire che lasciare le proprie case, la propria quotidianità per andare in battaglia non è mai una scelta semplice: facile parlare dopo, quando tutto è già accaduto e se ne può raccontare senza timore di ritorsioni. Alla fine della lettura del libro di Luzzatto devo invece riconoscere che mi ero sbagliata, che mi è rimasta addosso una sensazione di fastidio. Non sono una storica di professione e non ho le competenze per fare le pulci a quanto scritto da Luzzatto, hanno già provveduto a farlo autorevoli storici (Cfr.D. Bidussa, A.Cavaglion). Ma voglio dire la mia. Cominciamo dalla struttura del libro. Nel mirino, dichiaratamente, c’è un bersaglio grosso, Primo Levi. L’opera è divisa in due parti: nella prima si ricostruisce la sua brevissima partecipazione alla Resistenza in Val d’Aosta, dall’8 settembre 1943 fino al suo arresto, il 13 dicembre dello stesso anno. Qui si racconta un episodio, marginale nella storia del movimento partigiano ma importante per i singoli protagonisti della vicenda. Pochi giorni prima dell’arresto di Primo Levi due partigiani furono fucilati non dai nazifascisti ma – questo oggi sembra accertato – dai propri compagni, tra i quali c’era anche Levi. Luzzatto accusa lo scrittore di non avere dato evidenza, nella sua ampia e sofferta testimonianza di quel tempo terribile, a quanto era successo nell’autunno ‘43 sulle montagne della Val d’Aosta, di avervi solo dedicato, e in modo non del tutto esplicito, un riferimento in “Oro” sulla prigionia da partigiano, uno dei ventuno racconti nel libro “Il Sistema Periodico”, edito nel 1975 da Einaudi. La seconda parte del libro è invece incentrata sulle gesta della spia fascista Edilio Cagni, responsabile dell’arresto del gruppo di Levi, di cui si raccontano per filo e per segno le azioni, odiose come solo le spie riescono a compierle, e la storia processuale del dopo guerra e di come Cagni non abbia mai scontato la prigione nonostante le terribili rappresaglie svolte contro i partigiani e le popolazioni civili della valle durante l’occupazione nazista sotto il controllo dei militi della Repubblica Sociale Italiana. Ho avuto l’onore di incontrare Levi quando, da giovane studentessa, avevo deciso di fare la mia tesi di laurea sulla partecipazione degli ebrei alla Resistenza in Piemonte, raccogliendo le testimonianze personali di quanti vi avevano partecipato e delle persone più vicine a quanti di loro non c’erano più. Ricordo la sua disponibilità all’incontro, la cortesia con cui mi fece accomodare nello studio nella sua casa, a Torino. L’ironia con cui accolse la mia domanda sulla sua partecipazione alla Resistenza: “…eravamo dei giovani borghesi – mi rispose con un sorriso mite – sapevamo che si doveva agire, noi ragazzi ebrei dovevamo nasconderci più degli altri giovani che sarebbero diventati presto renitenti alla leva e quindi passibili di arruolamento coatto o invio in Germania nei campi di concentramento. Ma non avevo fatto il militare, non avevo mai visto una pistola, non avevo contatti. Al massimo avevo trasportato dei volantini di propaganda da Milano a Cremona in treno la notte”. Mi raccontò l’incontro casuale con Aldo Piacenza: “è arrivato nella mia stessa locanda un mio ex compagno di scuola cristiano, un giovane tenente dell’Armir che aveva fatto tutta la guerra di Russia, come Nuto Revelli e tutti gli altri aveva capito là cos’era il regime. Abbiamo fatto finta per qualche tempo di non esserci riconosciuti, dopo un po’ ci siamo avvicinati ‘tu sei Aldo Piacenza’, ‘e tu sei Primo Levi’”. E’ Piacenza a far provare a Primo Levi la pistola: “Un solo colpo di rivoltella, perché Aldo, che aveva sei proiettili ha detto: sprechiamone uno”. (Cfr. G. Arbib G. Secchi, Italiani Insieme agli altri, Ebrei nella Resistenza in Piemonte 1943 – 1945, Ed. Silvio Zamorani). Nel suo libro Luzzatto si concentra con una determinazione ossessiva – dice proprio così – su quell’episodio avvenuto durante la lotta partigiana di Levi. Si impegna a ricostruire le circostanze della morte di due giovani che facevano parte di quella piccola banda, per anni addossata ai fascisti mentre invece furono condannati, senza appello, proprio dai loro compagni tra i quali, sostiene Luzzatto, c’era Primo Levi. Luzzatto sembra indifferente al contesto in cui l’evento va collocato ma non può ignorare che una guerra, soprattutto se combattuta tra truppe organizzate e forze irregolari, in presenza di spie, complotti, clandestinità e tradimenti, comporta quasi inevitabilmente tragedie. Trascura il peso delle difficoltà organizzative in particolare all’inizio, nelle fasi di reclutamento e formazione delle bande partigiane, la complessità dell’approvvigionamento, dei rapporti da costruire con le popolazioni dei villaggi, fondamentali per garantire la sopravvivenza dei combattenti in montagna. Sembra preferire le tesi di Giampaolo Pansa, più attente alle ragioni dei vinti, evita di confrontarsi con le analisi crude ma veritiere dello studio di Pavone che in “Una guerra civile, saggio storico sulla moralità nella resistenza”, edito da Bollati Boringhieri, si era assunto il compito faticoso di fare chiarezza sulla mitica partecipazione alla guerra partigiana, combattuta da giovani impreparati non solo sul piano militare ma anche per quanto riguarda il rispetto dell’etica, un concetto oscuro dopo venti anni di vita sotto il regime totalitario fascista. La Resistenza che ci ha liberato dall’occupazione nazifascista fu una guerra con tutto l’orrore della guerra. I giovani che vi hanno partecipato ne avrebbero fatto volentieri a meno. Levi racconta (ibidem) che “ nella valle accanto, sotto Brusson, c’era la banda di Piero Pieri (Piero Urati), una delle macchie nere della Resistenza, una banda di banditi di fatto, che faceva la Resistenza per conto proprio…”. Nel Sistema Periodico, sempre nel racconto “Oro”, scrive di “un segreto brutto: lo stesso segreto che ci aveva esposto alla cattura”. “Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti”. A Luzzatto quanto scritto da Primo Levi non pare sufficiente, avrebbe voluto nomi e cognomi dei responsabili, forse perfino le scuse ufficiali. Può darsi serva a ogni combattente cercare i nomi delle persone che ha ucciso sul campo di battaglia per chiedere loro scusa. Forse sarebbe più semplice rinnegare le guerre, ma a volte succede che il nemico non chieda permesso e decida di essere in guerra contro di te prima ancora che tu possa reagire. Ma queste rischiano di essere parole prive di senso. Forse Luzzatto avrebbe dovuto ricordare che l’episodio tragico su cui ha concentrato la propria ricerca era avvenuto nei primissimi giorni della salita in montagna di giovani costretti a nascondersi, forse avrebbe potuto dare un giusto peso al fatto che quei giovani, quando decisero di passare all’azione, più per una questione di volontà che per un desiderio specifico di diventare combattenti, in realtà non sapevano da quale parte iniziare. Non erano militanti comunisti, non avevano armi, non avevano piani strategici, trovarono rifugio negli alberghi dove erano soliti villeggiare, non avevano obiettivi di lotta se non genericamente l’essere contro i tedeschi e i fascisti. Sembra che l’obiettivo di Luzzatto con la sua ‘ossessione’ di mettere a fuoco quella pagina dimenticata della Resistenza voglia unicamente sporcare la memoria di Primo Levi, voglia ridimensionare la figura di Primo Levi come se essere un uomo come tutti noi, pieno di incertezze, paure e debolezze, ma che ha vissuto l’inenarrabile ed è riuscito, al suo ritorno, a raccontarcelo non meritasse rispetto. Levi, grazie alla sua sofferta testimonianza dell’orrore, si è guadagnato la stima nel mondo. Sono certa che le sue opere e la sua figura continueranno ad essere conosciute e onorate. Quanto all’ossessione di Sergio Luzzatto, se ne faccia una ragione. E si accontenti del clamore mediatico che la sua opera ha suscitato, non so per quanto a lungo ancora.
Gloria Arbib, segretario generale dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Pagine Ebraiche, giugno 2013
(4 giugno 2013)