La Città oltre la porta
La città di tutti i destini e di tutti gli incontri, la casa della più antica presenza della Diaspora, ha segnato nei destini ebraici ogni passo, ogni dramma e ogni raggio di sole. Sede oggi della maggiore realtà ebraica italiana, oggetto infinito di amore, di fastidio, di passioni, di studio, di venerazione, di conflitti; Roma parla, da qualunque prospettiva la si voglia osservare, di quello che gli ebrei sono stati, di quello che sono oggi e di quello che saranno. Ma racconta anche del loro impegno viscerale e appassionato nell’essere fedeli alle radici, all’eredità identitaria che si tramanda di generazione in generazione. E porta le cicatrici delle sofferenze, dei drammi. Storica, saggista, intellettuale esposta in prima persona sul fronte dell’ebraismo vivo, voce costante, sempre sincera e mai ansiosa di fare l’unanimità, impazientemente attesa di settimana in settimana sul Portale dell’ebraismo italiano www.moked.it e su Pagine Ebraiche da molti lettori, Anna Foa ha lasciato da breve tempo la casa del quartiere ebraico che ha abitato in questi ultimi anni, ha oltrepassato il Tevere e ha trovato in una nuova abitazione un modo diverso, forse più riparato, di condurre la sua vita quotidiana. Alla gente di piazza che ha accompagnato la sua esistenza giorno per giorno ed era ormai abituata a vederla passare, a considerare lei, romana d’adozione, una di casa loro, vuole ora lasciare un testo, un grazie racchiuso in un libro fuori dal comune, “Portonaccio. Storia di una casa 1941-1943” destinato alla pubblicazione in tempi brevi. Certo un libro per chi ama la Storia e per chi è consapevole dell’importanza di conoscerla, ma anche un libro per tutti gli altri. Le persone semplici che si incontrano per la via, che sostano fuori dai bar e che abitano nelle case. E una storia in questo caso diventa la Storia, perché comprende, schiudendo un portone del Portico d’Ottavia, le vicende di tante famiglie, di tanta gente che in quelle mura in tempi e modi diversi, ha avuto dimora. Un’opera commovente che riunisce un coro immenso, il condominio della nostra vita, e lo mette a raccontare che cosa è Roma e che cosa significa essere ebrei a Roma. Un grande omaggio alla città e un grande omaggio alla sua comunità. E soprattutto il racconto di una casa e della sua gente che nonostante le ferite delle persecuzioni ha saputo far arrivare fino a noi la propria voce vera e viva. Accanto a questa grande storia della gente di Roma è giusto parlare ancora, attraverso una lettura a tre voci, della stessa Anna Foa, di Alberto Cavaglion e di Claudio Vercelli, di un altro volume curato da due giovani storici italiani e preannunciato da Pagine Ebraiche lo scorso mese. Con “1982 Attentato alla sinagoga” (Viella edizioni) Arturo Marzano e Guri Schwarz raccontano un altro capitolo drammatico e indispensabile per comprendere Roma e per comprendere l’ebraismo italiano contemporaneo. E’ la storia ancora non compiutamente raccontata, e la ferita ancora non guarita, di una comunità tradita dalle ambiguità di un mondo politico che dietro alla maschera del progressismo di maniera finì, consapevolmente o inconsapevolmente, per seminare un clima d’odio nella stagione dei crimini del terrorismo. Ancora la grande Storia e la piccola storia che si intrecciano. Ancora le ferite del Novecento. Ancora Roma. Con la generosità e l’amicizia che la contraddistinguono, Anna Foa ha intanto accettato, al margine del colloquio accordato a Rachel Silvera che il lettore trova qui a fianco, di interrompere per un attimo la sua ricerca appassionante e raccogliere le prime impressioni sul lavoro che sta per nascere. “L’idea iniziale – racconta – era quella tipica di ogni microstoria, di passare da una storia limitata, ma analizzata il più minuziosamente possibile, alla grande storia, alle domande più ampie che vengono suscitate dal racconto più ristretto. Dal punto di vista metodologico, ho cercato il più possibile di incrociare le fonti di tipo tradizionale (i censimenti, il database della Comunità romana sui deportati del 16 ottobre, i documenti processuali, ricchi di riferimenti diretti ad alcune delle famiglie della casa) con le fonti orali, i racconti di coloro che sono ancora vivi, dei loro figli o nipoti che hanno sentito parlare in famiglia di quel luogo e della vita là dentro. Con tutte le difficoltà che le fonti orali presentano, sul piano della certezza dei dati. Non è tuttavia un lavoro di storia orale in senso stretto, anche perché non sono una storica orale. Infatti non ho usato le interviste come interviste orali, ma ho utilizzato i racconti soprattutto per individuare dove abitavano le diverse famiglie e come si viveva nel palazzo, quali erano stati i percorsi della fuga e della sopravvivenza, e ho sempre confrontato le testimonianze dirette o indirette con le fonti giudiziarie o anagrafiche. Restano ovviamente dei vuoti, di alcune famiglie so poco o nulla, perché non ci sono sopravvissuti o discendenti a raccontare. Il censimento è del 1938, dal 1938 al 1943 alcuni si trasferirono, altri arrivarono. Considerando anche che alcune residenze si riferivano al magazzino, non all’abitazione effettiva”. “Con tutte queste carenze – riprende – l’impressione è di una casa fitta di abitanti, una sorta di ghetto dentro il ghetto, di una vita in comune fatta di giochi dei bambini, di chiacchiere delle adolescenti, di amicizie, di cibo condiviso. L’idea era di riportarli in vita, perché troppi erano morti. Mi ha colpito il numero enorme dei deportati da quel palazzo il 16 ottobre, pari a quello dell’altra casa, il numero 9, nota come la casa dei Fabii”. “I problemi generali che ne emergono sono molti – aggiunge la storica – e uno è quello della permanenza degli ebrei della casa e delle case intorno nel quartiere anche dopo il 16 ottobre. Anche chi era rifugiato in convento tornava ogni tanto a comprare il pane o a prendere delle cose nella propria abitazione, alcuni vi restano addirittura. Perché allora i nazisti non hanno messo in atto un’altra razzia e hanno lasciato che ad arrestare gli ebrei fossero spie e banditi prezzolati, che li vendevano, li salvavano dietro riscatto (tranne poi arrestarli ancora, se era il caso) ed esercitavano il potere di vita e di morte? Dico anche di vita, perché qualcuno è stato lasciato libero, ed è su questi casi che si sono mossi gli avvocati difensori nei processi del dopoguerra per sostenere l’innocenza dei loro clienti. L’azione di queste bande è diversa da quella degli stessi poliziotti dei commissariati, ricordiamolo aderenti a Salò. Con il questore Caruso, la persecuzione si fa molto più dura ed efficace, ma la sensazione che si ha, almeno da questi casi del quartiere, è che Caruso stesso usi dei suoi accoliti e non i canali ufficiali dei commissariati di cui non si fidava. Dappertutto, bande di affiliazione diversa, spesso in conflitto, i cui membri si arrestavano fra loro. Un caos”. Infine il rapporto con il mondo esterno, fra perdizione e salvezza, che svela un’altra dimensione fuori dal comune di Roma: “Due conventi emergono dalla storia della casa, quello della parrocchia di San Benedetto e delle annesse suore Pie Filippine, con la loro scuola dove le ragazze ebree aiutavano con i bambini e dove era parroco don Gregorini, un personaggio straordinario, e quello del convento di Santa Francesca Romana, che ha ospitato gratuitamente molte donne e bambini, di cui ho avuto tante descrizioni positive. C’era uno splendido terrazzo su cui le donne ebree a Pesach hanno fatto il pane azzimo, ma le suore, alla richiesta di visitarlo, mi hanno oggi negato l’accesso. Eppure, avrei voluto raccontarlo dal vero”.
Portico d’Ottavia, Portonaccio della Storia
Anni fa, in un film di culto, Nanni Moretti gironzolava per i quartieri romani alla scoperta di nuove case con architetture stravaganti. Scrittrici contemporanee di successo come Muriel Barbery o Chiara Gamberale hanno scelto un palazzo come cardine per l’intreccio narrativo dei loro romanzi. Alcune abitazioni hanno odori ed equilibri particolari, raccontano la loro storia attraverso muri scrostati o mattoni a vista, porte che cigolano o rubinetti che sgocciolano. Quando entri ti sembra di cogliere le ombre dei suoi proprietari, catturati nei trascurabili attimi quotidiani: la cena che gorgoglia irritata sul fuoco mentre qualcuno rimesce il preparato come se fosse una pozione magica, le serrande che si alzano o si abbassano scacciando e di nuovo accogliendo una striscia di cielo, i piccoli soprammobili testimoni di nozze passate o viaggi indimenticabili. La Storia con la s maiuscola solitamente si dimentica di queste piccole gioie impolverate dal tempo, si concentra piuttosto su regge sfarzose e salotti alla moda. Preferisce il broccato ai panni stesi e le teste coronate alle crocchie che fermano cascate di capelli. La Storia spegne le luci nelle case degli altri e punta l’occhio di bue sui palazzi del potere, dove vengono ordite congiure e stretti i patti. La stimata storica Anna Foa non si è fermata di fronte alla tentazione della lettera maiuscola e ha scritto un libro che uscirà questo autunno dalla casa editrice Laterza. Il protagonista è un antico palazzo, con larghe scale di marmo bianco, cunicoli e colonne. Uno stabile appena fuori dall’antico ghetto di Roma, la cui fortuna ha incontrato luci e ombre. Dal ‘43 è stato per nove mesi protagonista di razzie, arresti, lacrime e tradimenti, ha conosciuto l’ambiguità del fascismo e la terribile efficienza del nazismo. Lo sfondo ideale per indagare di più su questa microstoria con macro risvolti, non può essere altro se non una casa, quella nella quale mi accoglie la scrittrice: piena di scale e ricoperta fin sopra il soffitto da libri. Mi siedo dando le spalle ai Fiori del male di Baudelaire, poco distante una cagnolona sonnecchia indisturbata tenendo vicino qualche osso di conforto. Ci immergiamo subito dentro il cuore pulsante di questa storia: il civico 13 di via del Portico d’Ottavia, un palazzo avvolto nel mistero che, dietro il portone di legno, cela le memorie dei sogni infranti di quasi un centinaio di vite. “Oggi il civico 13 ospita la buona borghesia della Capitale, non ci abitano più ebrei, ma negli anni ‘40 gli inquilini, tra gli ottanta e i cento, erano tutti di religione ebraica, modestissimi ambulanti, e metà di loro sono stati uccisi durante il nazifascismo” ricorda la storica. La Piazza, luogo di ritrovo strenuamente frequentato dai membri della comunità ebraica romana, conosce bene il Portonaccio (così è stato coloristicamente denominato) con il suo chiostro, i suoi tetti e le sue scale. Sono proprio le scale la chiave di volta che sostiene l’architettura del libro di Anna Foa: “I gradini larghi di marmo consunto sono così faticosi e difficili. Sono infatti le scale ad avermi colpito quando sono entrata per la prima volta nel civico 13”. Con un po’ di impegno si riesce a ricucire lo strappo con il passato e ritornare a settanta anni fa, agli aguzzini che salivano le scale per arrestare i condomini ed a chi le scendeva, tra buio e umidità, per scappare. “È l’importanza del luogo che mi ha dato la forza di scrivere, la faticosa magnificenza di quelle scale. Ricordo ancora quando una ventina di anni fa ho visitato per la prima volta il palazzo con una troupe televisiva, dieci anni dopo sono andata a vivere lì per qualche anno. Da poco ho scoperto che in un libro scritto da Anna Bravo, Lucetta Scaraffia e me, I nuovi Fili della memoria (edito da Laterza), tra le immagini corredate c’era quella del civico 13. Quella casa era nel mio destino. È un luogo forte”. Ma come si armonizza il fascino romanzesco del Portico d’Ottavia con la verità della storia? Anna Foa si è mossa su più fronti, ha incrociato le fonti del censimento del ‘38 ai processi contro le spie. Una microstoria che si allarga a macchia d’olio fino a travolgere il quadro frastagliato dei mesi più bui di Roma, città di contraddizioni e segreti. Tra le ombre, la famigerata banda di Cialli Mezzaroma, a causa della quale furono arrestati più di settanta ebrei. Quella delle spie è forse una delle pagine più bieche del nostro paese, fatta di sussurri e tradimenti in cambio di lauti pagamenti: “Cinquemila lire per un uomo, quattro o tremila lire per una donna e mille per un bambino”. Chi riesce a sfuggire alla retata del 16 ottobre, chi si salva dalla furia nazista, però non riesce mai ad abbandonare del tutto la propria casa in via del Portico d’Ottavia 13. Una calamita continua ad attirare gli ex abitanti: c’è chi stende il bucato, chi torna di tanto in tanto a prendere qualche oggetto personale rischiando l’arresto. La storia alle volte sorride, alle volte prende delle pieghe drammatiche. Gli uomini fuggono dal tetto, una donna partorisce nel sottoscala una bambina, poi eccezionale testimone di questo libro. Gli ebrei di Roma pur impauriti, pur prede delle spie, non riescono a lasciare la loro Piazza, il loro salotto a cielo aperto: c’è chi mette una sedia lungo la via, chi fa arvit sotto la loggia. “Per scriverne bisogna entrare nella pelle di chi ci abitava, sottolinea la storica. Ma come mai i fascisti hanno bisogno delle spie? La vicenda è piena di contraddizioni, fatta di ebrei arrestati e poi rilasciati, di mogli ebree che vanno a trovare i mariti in carcere o a chiedere informazioni su possibili nuove retate. L’ordine vantato dai fascisti non è che un mito. La Roma tra il ‘43 e il ‘44 non è che una enorme pentola a pressione. Gli ebrei vengono venduti e cercano di comprare sperando che pagare una taglia basti per la propria libertà. C’è chi si chiede se le bande siano legate alla criminalità organizzata, ma sembrano agire da soli, con saccheggi e pugnalate alle spalle. Sotto il cielo di Roma, il palazzo medievale e poi rinascimentale del Portico d’Ottavia trasuda mistero e terrore. Una delle colonne scompare, i cunicoli e i passaggi segreti conservano invece lo squittio dei topi. Dai tetti gli uomini si rifugiano al Convento di Sant’Ambrogio, le donne nella Parrocchia di San Benedetto. Una storia dinamica che si consuma tra chi scende e chi sale le scale. “Mi sono basata su fonti documentarie ma anche su testimonianze orali. C’è chi racconta di più, come una brillante signora di ottantadue anni e chi è più reticente. Tutti si conoscevano tra loro, non c’era vita privata; questo però aveva i suoi lati positivi: le donne cucivano insieme, i bambini facevano merenda, ci si divideva i compiti come in una sorta di kibbutz urbano. Umberto Pavoncello mi ha raccontato che nel palazzo durante gli anni ‘70 vivevano degli hippie”. Sul civico 13 ha aleggiato allora un forte senso della comunità. L’identità ebraica romana è determinante e la sua presenza è millenaria, basti pensare al poeta Orazio che nella sua satira dello scocciatore ironizza sullo Shabbat. La storia si tinge di nero con le bande scatenate che vengono aiutate da persone che conoscevano bene la vita degli ebrei di Roma, una spy story fatta di collaborazionisti, amanti e venditori di caldarroste, i cui processi si possono consultare nell’Archivio di Stato. Ma il male non comanda da solo: ci sono infatti piccole grandi storie di salvataggio, i bambini ad esempio passavano molto tempo al cinema grazie a una maschera che, pur sapendo la loro identità, li proteggeva o il macellaio che mette giù la saracinesca e fa posto ai perseguitati. “La storia dell’antico palazzo di Portico d’Ottavia, legata a doppio filo alla Roma dei papi, ha iniziato a interessarmi dopo aver letto la tesina di due studenti di architettura. Tra i libri che mi hanno più influenzata, oltre evidentemente a Giacomo Debenedetti, Roma 1943 di Paolo Monelli e L’inverno più lungo di Andrea Riccardi. Probabilmente solo adesso che non abito più lì sono riuscita a scrivere il libro con il giusto distacco”, conclude Anna Foa. Allora, dopo essermi congedata, tutto quello che continuo a vedere sono delle scale, salvifiche e pericolose e il cielo di Roma, che nonostante tutto continua a splendere sul civico 13.
Rachel Silvera, Pagine Ebraiche, giugno 2013
(13 giugno 2013)