Qui Firenze – Una ferita ancora aperta

Ancora grande partecipazione, dopo il successo di presenze della prima giornata, per le iniziative del Balagan Cafè nei giardini della sinagoga di Firenze. Musica klezmer con l’esibizione di tre gruppi da tutta Italia, tra cui la formazione fiorentina Balagan Cafè Orkestar, ma anche libri destinati a lasciare il segno come ‘Attentato alla sinagoga. Roma, 9 ottobre 1982’ (ed. Viella) in cui gli storici Arturo Marzano e Guri Schwarz raccontano il rapporto tormentato dell’opinione pubblica italiana con il conflitto medio-orientale individuando come spartiacque l’attentato al Portico d’Ottavia del 1982 (a presentare l’opera Ugo Caffaz e Marcella Simoni). Un libro che continua a suscitare reazioni. Sull’ultimo numero di Pagine Ebraiche gli interventi di Anna Foa, Claudio Vercelli e Alberto Cavaglion.

La ferita, i veleni, un’idea nuova d’Israele

Nel libro “Attentato alla sinagoga – Roma 9 ottobre 1982” (Viella editore) Arturo Marzano(Viella editore) Arturo Marzano e Guri Schwarz affrontano per la prima volta a livello storiografico, e non più soltanto a livello giornalistico o polemico, il tema del ruolo dell’Italia nel conflitto mediorientale e della posizione del nostro Paese rispetto ad Israele e alla questione palestinese negli anni fra il 1967 e la guerra del Libano. L’attentato del 1982, anche se opera di terroristi palestinesi e non italiani, va letto, affermano gli autori, nel contesto più ampio della storia italiana di quegli anni, della visione politica della sua classe dirigente, di quella proposta dalla stampa, dai partiti, dall’opinione pubblica. In questa concezione, nelle sue trasformazioni, nei suoi conflitti e fin nelle sue forme di unanimità si formano prese di coscienza del passato più lontano, ideologie, mitologie e visioni del mondo. La stessa costruzione della memoria della Shoah, con il suo intreccio strettissimo con la storia culturale e politica dell’Italia di questi decenni, ha nessi assai visibili con la storia dell’immagine che nel nostro paese si elabora del conflitto palestinese e con l’immaginario fortissimo che ne deriva nella società italiana. Il libro, intendiamoci, non è, come forse potremmo aspettarci, un atto d’accusa contro la sinistra italiana, il suo antisionismo militante e i non pochi casi in cui l’antisionismo mostrava la sua faccia antisemita, come nel famoso episodio della bara deposta da un corteo sindacale davanti alla sinagoga romana. Senza fare sconti a questa sinistra, ma con l’atteggiamento pacato dello storico che analizza e descrive e non accusa, gli autori allargano la loro attenzione a tutto il mondo politico italiano, a tutti i partiti e a tutte le forze politiche, sia negli anni dopo la guerra del 1967 sia nei mesi immediatamente precedenti l’attentato, in cui l’immagine di Israele tocca in Italia il suo punto più basso. Con il merito, a mio avviso, di non trarre tra questo clima ostile ad Israele (e non solo alla politica di Begin) e l’attentato del 9 ottobre un rapporto immediato di derivazione: l’attentato è e resta opera di Abu Nidal, di una frazione del terrorismo palestinese in contrasto con l’OLP e autrice della maggior parte degli attentati che si hanno in questi anni in Europa, che usa il suolo italiano come ha usato quello austriaco o francese come teatro delle sue imprese sanguinose. Il clima politico non prepara l’attentato, anche se certo non è ininfluente e contribuisce a rendere, se non nella realtà certo nelle percezioni degli ebrei romani in quei giorni, le istituzioni responsabili della morte del piccolo Taché, e a spiegare la chiusura verso l’esterno della “piazza”, fino alla riconciliazione realizzata con grande sapienza politica ed umana da Elio Toaff. Chi scrive ricorda perfettamente il senso di liberazione e di sollievo che tale riconciliazione ha creato in lei e in coloro che le stavano accanto, quasi si potesse finalmente trarre il respiro sospeso, pur lasciando naturalmente intatto il dolore per quell’assassinio e senza risposta le tante domande che l’attentato e ciò che lo aveva preceduto sollevavano. Domande che gli autori toccano senza dare risposte ma anche senza indulgere alla dietrologia e alla teoria complottistica, per dovere di cronaca direi: sui rapporti tra i servizi segreti e Abu Nidal, sull’assenza di sorveglianza di fronte al Tempio quella mattina, e via discorrendo. Altre sono le domande che interessano agli autori. Così, nell’analizzare il passaggio al totale sostegno filopalestinese della sinistra italiana e in particolare del suo mondo giovanile e delle sue fasce extraparlamentari negli anni Settanta, l’analisi si sofferma con maestria, in pagine di grande efficacia, sulle ragioni che spiegano la diffusione così ampia di un paradigma, quello del palestinese vittima e dell’ebreo carnefice e ancor più quello dell’ebreo che da vittima diventa carnefice. Siamo nel momento storico in cui si elabora la rivalutazione dell’idea di vittima, centrale nell’elaborazione della memoria della Shoah, e la contraddizione che le vicende della guerra del Libano portano in questa elaborazione spingono la maggior parte dell’opinione pubblica ad interiorizzare nel profondo questa immagine, non senza turbare profondamente una parte del mondo ebraico stesso, come le pagine dedicate alle posizioni assunte allora da Primo Levi dimostrano. Una spiegazione suggestiva, che apre la strada a molte rivisitazioni dell’immaginario collettivo di quegli anni. Come gli autori affermano più volte, il 1982, con l’attentato alla Sinagoga, segna una svolta nella storia dei rapporti dell’Italia non tanto con Israele quanto con l’immagine che se ne aveva e che se ne aveva avuta. I partiti politici aprono un faticoso e lento dibattito sulla loro politica mediorientale, il tema dell’antisemitismo emerge in primo piano, si affrontano in modo diverso le questioni legate all’identità ebraica e alla natura del sionismo. E’ il contesto culturale e politico in cui siamo tuttora immersi. Se posso fare una critica a un libro che ho apprezzato e letto con grande interesse, non mi sarebbe spiaciuta un’analisi più approfondita di tali conseguenze, cioè delle trasformazioni indotte da questo spartiacque del 1982. Il libro, così attento e lucido sul “prima”, affronta solo per accenni quel “dopo”. Ma forse gli autori se lo riservano per un altro libro.

Anna Foa, Pagine Ebraiche, giugno 2013

Il collasso del vecchio sistema ideologico

Escono rafforzati dalla lettura del testo di Arturo Marzano e Guri Schwarz alcune idee che ottengono non solo conferma della loro plausibilità ma anche un concreto riscontro. La prima e più importante di esse è che il tornante decisivo nella formazione di un risentimento anti-israeliano, che si è poi tradotto in altro ancora, si collochi tra il 1967 e il 1982. Quella lunga parentesi storica di quindici anni si avvia con la Guerra dei sei giorni e l’acquisizione militare prima, e l’amministrazione poi, della Cisgiordania da parte d’Israele. Si conclude con la lunga Guerra del Libano, terminata solo nel 1985. In mezzo c’è la vittoria di Menachem Begin, leader del Likud, alle elezioni del 1977. Al culmine del processo di mutamento, in quanto tornante destinato a sancire una secca dicotomizzazione, gli autori collocano, dall’angolo visuale italiano, l’attentato del 9 ottobre 1982, al Tempio maggiore di Roma. Di quel fatto terribile, di quanto l’aveva preceduto e di ciò che ne sarebbe derivato, quanto meno a breve, ne viene fatta un’ampia e meticolosa ricostruzione di contesto. Il volume, infatti, è composto di cinque densi capitoli, tra di loro a tratti fruibili anche autonomamente, benché costantemente intrecciati da una comune riflessione di fondo, soffermandosi sul quadro mediorientale di quegli anni, sull’atteggiamento italiano, sulle immagini correnti (nonché l’autoriflessione) degli ebrei italiani nel rapporto con la dimensione diasporica e con lo Stato d’Israele, fino a giungere alla tentata strage dell’ottobre di trentuno anni fa dove, come ben sappiamo, perse la vita il piccolo Stefano Gaj Tachè. Ma la secca ricostruzione delle cronologie, così come della stessa cronaca delle drammatiche ore di quella violenza, è funzionale a stabilire specifici profili interpretativi. Il fuoco dell’attenzione da parte dei due autori è infatti concentrato su alcuni delicatissimi passaggi socio-culturali, a volere fare scansione non tanto degli eventi quanto degli atteggiamenti mentali veicolati dai mezzi di comunicazione, diffusi tra la popolazione italiana e, di riflesso, destinati poi a pesare sulla coscienza di sé dell’ebraismo peninsulare. Marzano e Schwarz, infatti, si soffermano su simboli e pratiche discorsive, narrazioni diffuse mediaticamente al limite dell’inflazione – fino alla creazione di una mitografia a tutt’oggi funzionante -, intorno al conflitto israelo-palestinese e al ruolo della presenza ebraica nel nostro Paese. È questo il valore intrinseco del loro studio, prima ancora che la disamina dei processi storici da ciò raccolti e definiti. Si può parlare, al riguardo, di una vera e propria “stagione”. Affermano ad un certo punto, facendo il bilancio delle loro riflessioni: “ciò che molti ebrei sperimentarono – con un qualche anticipo rispetto al resto della società – fu il collasso del sistema di rappresentazioni culturali e dei riferimenti politico-ideologici ai quali, sin dal dopoguerra, erano state articolare identità individuali e collettive”. L’attentato del 9 ottobre 1982 non maturò in un vuoto di fatti e di opinioni ma fu la punta emersa di un iceberg la cui base era – e rimane – immersa e per questo inquietante nelle sue potenziali dimensioni. Tralasciando i facili e impropri accostamenti, le incaute sovrapposizioni, gli indebiti nessi, ovvero al netto delle improvvisazioni di giudizio rimane il riscontro che tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta si misurò un mutamento di disposizione d’animo nei confronti dell’ebraismo da parte di significativi segmenti della cultura e della società italiane. L’ibridazione delle storie nostrane con gli echi delle vicende mediorientali, insieme al progressivo riflusso politico che contraddistingueva il quadro politico nazionale, ebbero la loro parte in un percorso dove si consumò una sorta di inversione dei poli. Un fenomeno che rimandava, allora come oggi, ad un effetto di traslazione: gli ideali resistenziali, e antifascisti, transitarono così dall’identificazione con le ragioni d’Israele a quella con le rivendicazioni dei palestinesi, riflettendosi poi nel rapporto che una parte della società intratteneva con la minoranza ebraica. Del pari, in una sorta di influenza reciproca, il modo di pensarsi da parte dell’ebraismo italiano misurò il mutamento di paradigma e lo registrò all’interno della sua complessa struttura identitaria. Più che di un divorzio tra la sinistra italiana (poiché è su questa minoranza politica attiva che il libro sofferma la sua attenzione) e gli ebrei è bene parlare di una ridefinizione dei confini. Fatto che comportò, per non pochi, una ricontrattazione dei ruoli e degli scambi. Con una ripresa dell’elemento più strettamente connesso all’appartenenza di comunità, di contro al rapporto con una società, soprattutto politica, di cui si misuravano vicinanze ma soprattutto le sopravvenute lontananze. L’impatto delle vicende del 1982 fu infatti, per l’ebraismo italiano, qualcosa di simile a ciò che per una parte della sinistra comportò il confronto con le vicende ungheresi del 1956. Più che di speranze tradite sarebbe meglio parlare di una sorta di rottura generazionale, anche se questa non la si misura sul piano anagrafico bensì su quello culturale. E se il movente più forte fu senz’altro il cumularsi, dalla seconda metà degli anni Sessanta, di atteggiamenti di distanziamento della sinistra nei confronti d’Israele, trasfusisi in non pochi casi in sospettose diffidenze se non in avversioni conclamate, è non meno vero che l’arco di tempo in cui questo mutamento si consumò è quello in cui si passava dalla stagione dei movimenti sociali a quella del cosiddetto trionfo del privato. Poiché in questo caso le dinamiche generali, di un’intera società, si sovrappongono ai percorsi soggettivi e particolari dell’ebraismo italiano. Non è un caso, allora, se sia la sfera dell’immaginario collettivo ad esserne coinvolta potentemente: dall’ebreo che si emancipa dalle antiche schiavitù si passa così al palestinese oppresso che lotta per la sua liberazione. Tra le tante fonti che gli autori citano forse quella più incisiva ci è offerta da Giorgio Manacorda quando riferendosi all’impatto sulla coscienza di molti degli eventi libanesi del settembre del 1982 parlava dolorosamente della “frana del senso della storia”. Così per quanti ebrei non erano. Per gli ebrei, in una sorta di rispecchiamento inverso, la tragedia dell’attentato del mese successivo segnò la fine di un’epoca e l’aprirsi di un lungo cammino di riflessione e di riconsiderazione della propria fisionomia di cittadini italiani. Non ne sono derivati scissioni o abiure poiché in gioco non c’era questo, ma senz’altro una diversa percezione di sé, quanto meno in un ambito comunitario. Aggiungiamo, ma è questo un elemento che Marzano e Schwarz possono solo richiamare, che è a fare proprio da quegli anni che si apre il capitolo della memoria delle persecuzioni e dello stermini, così come è poi andando strutturandosi nei due decenni successivi. Ma è questa materia per un altro libro a venire, giacché ciò in cui siamo cresciuti sta già divenendo oggetto di storia.

Claudio Vercelli, Pagine Ebraiche, giugno 2013

Il coraggio che mancò

Il libro di Marzano e Schwarz offre così tante questioni che è difficile scegliere. Vorrei affrontarne soltanto due. La prima riguarda il ruolo degli intellettuali di fronte alla crisi di un’estate che sembrò non finire mai. Il libro svela – nessuno lo aveva fatto prima d’ora con eguale chiarezza – come il clima surriscaldato del 1982 fosse figlio delle ubriacature ideologiche degli anni Settanta. Meriterebbero pertanto di essere riascoltate per intero, in un’antologia che non sarebbe superflua, le voci dei pochi che come non si erano lasciati travolgere dai bollenti spiriti del decennio precedente, così seppero mantenere i nervi saldi nel 1982 (Alberto Arbasino, in primis, oltre ai pezzi noti di Anna Rossi Doria contro Rossanda e Scalfari, di Cases contro articoli apparsi sul Manifesto o di Silvia Berti contro il discorso di Lama). Un supplemento di indagine meriterebbe poi l’inaugurazione di un nuovo livello di comunicazione giornalistica: l’uso delle Scritture, dei Salmi, del Libro di Giobbe, dei Profeti, in breve l’uso pubblico della tradizione ebraica scosso dalle fondamenta e usato come arma di combattimento. Poiché viene citata una bella pagina di un grande antichista Pierre Vidal-Naquet: (“Il presente può trasformare l’immagine di ciò che è stato il passato”), mi sarebbe piaciuto che si andasse al di là dei prevedibili rilievi contro le arcinote volgarità espresse in quelle settimane da Gianni Baget-Bozzo. Bisognerebbe avere il coraggio di esplorare terre incognite e di parlare di altri personaggi che agitarono “il teatro delle ombre”, secondo la felice formula escogitata dagli autori. Ci sarebbero, per esempio, da riesaminare le linee editoriali (la marcia di avvicinamento alla letteratura israeliana fu molta lenta: il caso-Yehoshua scoppierà parecchi anni dopo), ma soprattutto andrebbero passate al setaccio le terze pagine e i supplementi di informazioni libraria, che dal 1982 in poi adattarono agli ebrei italiani la pratica, già ben rodata altrove, del doppio binario. Mi spiego. Se usciva una recensione, supponiamo, di un libro di storia degli ebrei nel tardo-medioevo, a fianco non doveva mai mancare un articolo sulla questione palestinese (o viceversa). Una par condicio dagli esiti subliminali evidenti, che ha trovato applicazione anche nei lanci pubblicitari di autori famosi, di cui si parla in questo libro. Tanto per non restare nel vago: Einaudi, in quella lunga estate, mandò in libreria il romanzo di Levi “Se non ora, quando?”. Sarebbe stato forse il caso di riprodurre uno dei tre inserti pubblicitari che (si badi bene, prima di Sabra e Chatila) accompagnarono il lancio del romanzo, intervallando la copertina con citazioni bibliche in salsa piccante degna di Baget-Bozzo, anche se di segno politico opposto: “Gli empi spostano i confini… “ (Giobbe, 24.2): “O spirito soffia su questi uccisi…” (Ezechiele, 37, 9-11) e via dicendo. La seconda osservazione riguarda la periodizzazione: nel libro si parte dall’estate 1982, invasione del Libano (l’appello su Repubblica firmato da alcuni intellettuali ebrei contrari all’invasione è del 16 giugno). Una seconda fase lega la strage di Sabra e Chatila (18 settembre) all’attentato del 9 ottobre e sposta il baricentro nella Diaspora. Infine una terza fase vede un crescendo di interventi che si protende nel 1983, ma riguarda quasi soltanto il riemergere dell’antisemitismo in Italia denunciato da chi in quell’estate aveva sentito odore di bruciato e negato da chi invece pensava che l’antisemitismo servisse per far passare in secondo piano le colpe di Begin e Sharon. Non era semplice tenere insieme un simile groviglio di problemi. Il libro ha il pregio di ricostruire le tre fasi, tenendole distinte, ma conservando una tesi forte: “la centralità della seconda guerra mondiale nella costruzione dell’immaginario collettivo” (p. 156). Data la quantità di riferimenti, anche figurativi per le vignette satiriche, lo stereotipo della vittima che si trasforma in carnefice finisce con l’assorbire il resto. Non poteva che essere così, ma la prima osservazione che sorge spontanea è, potremmo dire “il piccolo escluso” e cioè proprio il bambino ucciso nell’attentato, con il carico di emozioni che quella morte avrebbe dovuto evocare. Questo giornale non molti mesi or sono ha pubblicato una fotografia che non avevo mai visto prima e mi ha molto colpito. Un’immagine in cui emerge con forza il dolore, la drammaticità del momento. Ammesso e non concesso che i giornali dell’epoca avessero avuto in mano quella foto e, soprattutto, decidessero di pubblicarla, la domanda che giro agli autori è la seguente: quale reazione avrebbe avuto l’opinione pubblica? Scarsa, credo. Mi dispiace che i due autori non abbiano ricordato una delle frasi più taglienti che abbia scritto, alla vigilia della morte, Arnaldo Momigliano: “Sarebbe follia concludere con una nota di ottimismo quando accade che un bambino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell’opinione pubblica”. Scriveva così, in un saggio giustamente famoso, apparso originariamente in inglese e destinato a un pubblico di lettori all’epoca preoccupati per gli ondeggiamenti della nostra politica estera (The Jews of Italy, “The NY Review of Books”, 24 ottobre 1985). Quel sollevamento dell’opinione pubblica, reclamato da Momigliano, non si era visto proprio.

Alberto Cavaglion, Pagine Ebraiche, giugno 2013

(14 giugno 2013)