Oltremare – “Settimo: nessuna Babele che tenga”
Si si, ti dicono, certo che con l’inglese te la cavi in Israele. Come no. Poi però il giorno dopo l’alyiah, all’ufficio che ti deve fare la carta di identità, la universalmente necessaria Teudat Zehut, comincia subito a insinuarsi il dubbio. Nessuno degli impiegati, anche quelli che lo capiscono, sa rispondere in inglese. Tenti con il francese, ma l’impiegato di famiglia marocchina proprio oggi è in ferie. Il russo? No, da noi non si impara a scuola, cosa vuole, sa, noi italiani siamo un po’ provinciali. La preziosa Teudat Zehut in qualche modo poi si materializza, evidentemente tutti questi problemi con la documentazione non c’erano. Però un’ora di nuotata senza salvagente nelle acque profonde della burocrazia israeliana vale da sola l’iscrizione al migliore Ulpan disponibile. Cinque ore al giorno di studio intensivo dell’ebraico, per cinque giorni la settimana, per cinque mesi (chamsa-chamsa-chamsa!). Ti pare di essere ritornato al liceo compiti compresi, è gavetta dura di sopravvivenza multilingue, ma per entrare dentro Israele e non stare sospesi a mezzo metro da terra senza davvero toccarla, non c’è alternativa al parlare ebraico. Situazioni in cui l’ebraico è strumento insuperabile: viaggi in taxi (onde non farsi spennare dal concittadino tassista – che così invece ti racconta la storia della sua famiglia dall’Impero Ottomano ad oggi); supermercato (corso avanzato per non confondere detersivo per i piatti e ammorbidente, superato con lode all’Ulpan); ricerca di lavoro (ai colloqui, iniziare sempre in ebraico, e alla domanda “perchè hai fatto l’alyiah?” rispondere sempre sorridendo “è una storia lunga” – nessun israeliano vuole ascoltare una storia lunga, quindi l’intervistatore passerà ad argomenti più pregnanti, tipo le qualifiche); spiaggia (onde divertirsi ad ascoltare le idiozie che dicono i turisti vicini di ombrellone, che credono di non essere capiti – impagabile); ricerca di casa in affitto (per leggere gli annunci online scritti a caratteri lillipuziani, e poi intenerire i futuri padroni di casa, che per un Ole Chadash sono disposti a fare uno sconto e magari perfino a dare una mano di bianco).
Morale: l’ebraico è ostico ma utile, e ti fa sentire davvero a casa.
Daniela Fubini, Tel Aviv – Twitter @d_fubini
(17 giugno 2013)