Ticketless – Passeri in kibbutz
L’ultimo, appassionante fascicolo della “Rassegna Mensile di Israel”, a cura di Laura Quercioli Mincer e Tobia Zevi, “Gli animali nella tradizione ebraica”, è stato presentato a Roma il 17 giugno. Se le coincidenze ferroviarie lo avessero consentito sarei andato a discutere con i due curatori. Nell’Italia ebraica la pietas per gli animali nasce con l’emancipazione. Nessuna attenzione per gli animali fantastici. Nessun ircocervo, nessuna sirena. Animali domestici tanti, ma il cavallo, il gatto, il cane iniziano a diventare i compagni della vita quotidiana il giorno in cui s’aprono i cancelli dei ghetti. Prevale, soprattutto al nord, un bestiario pennuto: le oche, per via dei salami, fonte di acuti sensi di colpa; sui tacchini si scatenerà la fantasia di parecchi narratori; nel mantovano un briciolo di distaccata compassione per i suini non manca mai. A Trieste, soltanto lì, si percepisce l’eco della cinofobia centro-europea. Il cane appare negli incubi. Nella tradizione mistica, su cui Scholem ha lavorato parecchio, il cane simboleggia la forza del male. Un grande tema della letteratura jiddish, la paura dei cani, a partire da Singer, per altro teorico della moralità dei piccioni. L’amore per gli animali infrange lo scetticismo verso gli umani. Pinocchio ha avuto decine e decine di lettori ebrei perché Collodi reputava inesistente il confine fra uomini e animali. Il “mitleiden” (compassione) affiora nel “Quaderno d’Israele” di Giorgio Voghera (cap. XIV). Nel kibbutz dove si trovava, mentre in Europa trionfava il nazismo, Voghera descrive i passeri che a migliaia e migliaia sorvolavano il cielo, metafora di una tragedia in atto. Siccome procuravano danni nei granai ed ai raccolti, si dovette catturarne a centinaia con le reti: “Mentre si compiva la strage davanti al magazzino centrale della colonia, mi rifugiai nella parte più lontana dell’abitato. Ma anche lì mi raggiunsero le loro strida disperate, che mi trapassavano il cervello e mi stringevano il cuore, ed in cui mi pareva di sentire, accanto al dolore e al terrore, un accento di meraviglia e di indignazione”. George Steiner insegna che chi scrive di Shoah deve procedere per via allegorica. Voghera meglio di ogni altro scrittore italiano ha appreso quell’arte. Peccato che quel suo prezioso “quaderno” non sia stato più ristampato.
Alberto Cavaglion
(19 giugno 2013)