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Enzo Campelli, sociologo della Sapienza di Roma, presenta in questi giorni i risultati della sua indagine conoscitiva sulla comunità ebraica in Italia. Un lavoro di tale estensione e profondità sugli aspetti demografici, socioeconomici e culturali della popolazione ebraica non veniva condotto dall’ormai arcaico anno 1965, prima di quello spartiacque storico che fu la guerra dei Sei Giorni. In Italia, ricordate, o forse no? era in carica il secondo governo di Aldo Moro, con Pietro Nenni vicepresidente del consiglio e Giulio Andreotti alla Difesa, ora perfino lui non c’è più… Il progetto di Campelli, frutto di una meditata iniziativa dell’UCEI, è stato svolto con l’ausilio di un ampio team di consulenti e di intervistatori, e costituisce l’oggetto di un denso rapporto di oltre duecento pagine, oltre che materia per un dibattito aperto a tutti. Dunque, è cambiato qualche cosa dagli anni ‘60, e che cosa? La risposta, curiosamente, può essere: tutto e nulla. Se guardiamo alle esternalità, l’Italia che allora, faticosamente ricostruita dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, ancora godeva del finale dell’onda lunga del miracolo economico, è oggi un paese con alle spalle molti anni di rapido sviluppo, ma profondamente in crisi sul piano dell’economia e delle motivazioni. Nell’Italia di allora, il vilipendio antisemita si articolava attorno all’accusa di deicidio e alle recriminazioni contro il processo Eichmann, nell’Italia di oggi l’antisemitismo in forte ascesa è un composito di demonizzazione vecchia e nuova dell’ebreo e dello stato d’Israele. L’ebraismo italiano di allora cercava di mantenere un’esile identità religiosa nel contesto assimilatorio di una società italiana cattolica o socialcomunista, oggi in una società civile più complessa ma dove la memoria viene già calpestata e le ideologie si stemperano in gretti personalismi, un ebraismo dotato di spessore culturale e mediatico grandemente potenziato affronta problemi non del tutto diversi. Lo fa con molte maggiori cognizioni, sfumature e opzioni identitarie, e (nel bene e nel male) fuori da ogni possibilità di astrarsi da un fenomeno che allora quasi non esisteva nell’immagnario collettivo – Israele, lontano e onnipresente. Le riforme giuridiche dello statuto delle Comunità ebraiche italiane non hanno inciso più di tanto su una realtà esistenziale dominata dall’essere una piccola minoranza dalla scarsa massa critica e pari a meno del mezzo per mille del totale di un paese in cui perdura l’immutata confusione semantica fra “ebreo”, “israelita”, “israeliano”. E la tipologia distributiva non è cambiata: l’autosufficiente Roma, semmai più dominante di allora, l’eterogenea e poco coesa Milano, le combattive ma esangui comunità medie, la tenace e commovente finzione delle piccole e piccolissime comunità. Dagli anni ‘60, l’ebraismo italiano ha incorporato notevoli apporti immigratori e culturali: pensiamo soprattutto agli arrivi di migliaia di ebrei dalla Libia dopo il 1967 – caso esemplare di inserimento a tutti i livelli della partecipazione e delle responsabilità comunitarie – o dall’Iran dopo il 1979 – esempio più di enclave che di fluida convergenza. Si sarebbe potuto pensare a un corrispondente incremento demografico, ma le risultanze sono differenti. La compagine numerica non cambia molto, ma il numero degli iscritti alle comunità passa da circa 28mila nel 1965 agli odierni 25mila. È vero, sono in aumento i non-iscritti, per scelta ideologica o per una marginalità di stato giuridicoebraico personale affermata dalla corrente centrale dell’ebraismo istituzionale e non necessariamente condivisa dai diretti interessati. Ma il parametro fondamentale dell’invecchiamento – un 24 per cento di persone fra i 18 e i 35 anni contro 28 oltre i 65 – grava pesantemente sulle capacità di funzionamento di una comunità ebraica vitale e sulle sue prospettive future. Questo dato, ampiamente previsto dalle ricerche passate, si colloca sulla falsariga delle tendenze demografiche recessive generali dell’Italia, e dimostra la grande influenza del contesto societario macro sui percorsi della diaspora ebraica. Un figlio virgola quattro in media non è sufficiente a garantire il futuro di una popolazione, anzi ne anticipa l’ulteriore calo. I profili socioecomici e le mobilità sociali dell’ebraismo italiano riflettono in primo luogo la trasformazione generazionale con la graduale contrazione dei ceti più disagiati che ancora portavano i ritardi delle passate discriminazioni e in particolare l’emancipazione relativamente tardiva della comunità di Roma. Se nel 1965 il 25 per cento degli adulti disponevano di educazione elementare o inferiore, oggi questa condizione è quasi scomparsa (3,5 per cento). È invece più che raddoppiata, dal 16 per cento nel 1965 al 39 nel 2011, l’aliquota di laureati dove permane enorme il divario – oltre sei volte nel 1965, ben oltre il triplo oggi – rispetto alla popolazione italiana totale che, va detto, continua a essere in grave ritardo in confronto agli altri paesi sviluppati. Questa promozione nei livelli d’istruzione si è naturalmente accompagnata a un processo di mobilità professionale ascensionale, soprattutto attraverso l’uscita dalle condizioni più modeste dell’attività commerciale al dettaglio, ancora molto diffuse in passato, verso una terziarizzazione e una professionalizzazione compatibili con lo sviluppo generale dell’economia nazionale. Oggi 26 per cento degli ebrei dichiarano uno stato sociale basso-mediobasso, il 34 uno stato medio, e il 40 uno stato medio-alto o alto. Ma va notata anche una non marginale mobilità generazionale discendente: mentre il 48 per cento dichiarano uno stato superiore rispetto a quello del padre, il 19 dichiarano uno stato inferiore. E presumibilmente legati alla congiuntura economica dell’Italia, sono impressionanti i dati sulla propensione (non identica a intenzione) a emigrare. Fra i più giovani (età 18-25), il 77 per cento non escludono l’eventualità di partire, dato simile a quello di un’altra recente indagine condotta dal Centro Jonas. Ma anche a 36-50 anni, siamo oltre il 50. Se questo è un barometro della situazione nazionale, la prognosi è grave. L’elemento maggiormente innovatore della nuova indagine concerne, ben specificati, i modi di espressione dell’identificazione ebraica. La frequenza alle scuole ebraiche in complesso non è cambiata drasticamente, da 54 per cento nel 1965 a 64 ora, ma è aumentato di 2-3 anni scolastici il numero medio di anni di studio. È aumentata la pratica delle tradizioni religiose che nel 1965 era bassa per circa una metà degli ebrei italiani e alta per meno di un quinto, mentre oggi si ripartisce in maniera più equilibrata fra le varie intensità. La partecipazione al Seder di Pesach rimane, allora come oggi, il rituale più amato e seguito. Del tutto nuovi sono invece i dati sul significato dell’appartenenza e dell’identificazione ebraica dai quali si evince la centralità di un senso di comunione a livello di collettivo locale e di popolo globale e l’importanza percepita della trasmissione dei valori ebraici da una generazione alla successiva. In questo senso, l’ebraismo italiano – mutatis mutandis – non sembra allontanarsi dai paradigmi di molte altre comunità ebraiche contemporanee per le quali l’asse centrale del senso di identificazione ebraica si colloca in una intuizione di appartenenza al collettivo (Jewish peoplehood), mentre costituiscono personali e consapevoli scelte di possibile specializzazione le diverse opzioni offerte dal ciclo ebraico della vita familiare, dalla fede e ritualistica tradizionale, dallo studio, dal volontariato nelle organizzazioni, dall’impegno nella poliltica, nella società civile e nella lotta all’antisemitismo, e dalla sensibilità e solidarietà nei confronti di Israele e di altre comunità ebraiche nel mondo. L’analisi dei dati di Campelli non finisce certo qui, anzi è imperativo che si approfondiscano le interconnessioni più profonde fra i diverse aspetti della struttura socio-demografica della popolazione e quelli che toccano la cultura e l’identità ebraica. L’anello debole appare essere la Comunità come ente attore e mediatore dei bisogni ebraici percepiti. È essenziale quindi che questo ricco materiale sia materia di studio e di riflessione da parte dei dirigenti delle Comunità e delle altre istituzioni ebraiche perché dai dati emergano elementi di azione per il futuro.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

(24 giugno 2013)