In cornice – Protagonisti del Ventesimo secolo

Che nel ventesimo secolo alcuni ebrei abbiano contribuito allo sviluppo del mondo in svariati ambiti, era cosa nota anche a Andy Warhol (1928-1937) che nel 1980 creò una serie di dieci litografie intitolata “Ten Portraits of Jews of the 20th Century”. In questi giorni la si può ammirare al Museo del Novecento a Milano nell’ambito di una mostra dedicata alla collezione della Bank of America. Inutile aspettarsi da Warhol che scegliesse personaggi originali, o che li rappresentasse in modo inconsueto, perché come al solito si fece interprete di considerazioni e utilizzò immagini ampiamente diffuse nella società americane del tempo. E proprio questo ci deve interessare, perché ci permette di seguire il modo in cui allora veniva tracciato il confine fra americano-ebreo ed ebreo-americano e fra ebreo e israeliano. Warhol partì dall’idea di individuare un grande personaggio per settore di attività: abbiamo la psicologia con l’immancabile Freud, la scienza – con Einstein (casomai va notato che Warhol scelse per Einstein una posa classica in omaggio al Jewish Museum e non quella in cui fa la linguaccia ai giornalisti, che pure utilizzò lui stesso per altre litografie). Guardiamo invece alle scelte più problematiche: perché fra gli attori scelse i fratelli Marx e non qualche star più contemporanea, come Dustin Hoffman? Ecco due possibili risposte utili per il prosieguo del discorso: a) Dustin Hoffman è ancora vivo, mentre i fratelli Marx non lo erano più, e questo pare strano perché spesso Warhol ritraeva dei viventi (Liz Taylor, Lou Reed etc.); b) Hollywood è considerato un prodotto americano, mentre i fratelli Marx erano legati alla tradizione mitteleuropea. Passiamo ai filosofi, fra cui venne scelto Martin Buber e non, ad esempio, Herbert Marcuse, anche se ambedue erano deceduti nel 1980. Possibili risposte: a) Marcuse non era politically correct, perché di sinistra, anche se Warhol stesso assumeva sempre posizioni contro l’establishment; b) Martin Buber è legato al mondo ebraico diasporico, mentre Marcuse era un naturalizzato statunitense. Ecco allora la prima conclusione: per il mondo culturale newyorkese di fine anni ’70, l’ebreo è tipicamente colui che è nato in Europa e che è morto; tutt’altra cosa il futuro è l’americano-ebreo percepito più come americano che ebreo. Fa poi riflettere la scelta di inserire in questa galleria Golda Meir, come esempio di grande statista: Kissinger non andava bene, sia perché controverso sia perché troppo americano, ma perché non scegliere Ben Gurion, il padre dello stato? Seconda conclusione: nel milieu culturale di Warhol, l’unica realtà tipicamente ebraica che cresce e avanza è Israele dove emergono nuovi grandi figure, alle quali va garantito il pieno appoggio; Israele e la sua politica non è il passato, ma il futuro – seppur lontano dagli Stati Uniti.

Daniele Liberanome, critico d’arte

(24 giugno 2013)