Tea for Two – La Grande bellezza
Vi chiederete cosa ci sia di ebraico nella Grande bellezza, il nuovo film di Sorrentino, che ha talmente fatto parlare di sé da rubare pubblico perfino a Fast and Furious numero 250. Effettivamente tutte quelle suore in fuga, il tatuaggio di Sabrina Ferilli, la tragica figura di Carlo Verdone teatrante con velleità alla D’Annunzio e soprattutto Jep Gambardella, il giornalista partenopeo dotato di attico con vista Colosseo e fisionomia di Toni Servillo, santo protettore del cinema italiano, non hanno alcun riferimento con il nostro background religioso e culturale. Nemmeno una strizzata d’occhio. Ci sono però diverse letture per interpretare (non me ne voglia Susan Sontag, acerrima nemica dell’interpretazione) il film: quella immediata è una divertita denuncia di un certo ambiente godereccio fatto di feste con remix della Carrà, ballerine discinte, bambine prodigio costrette a fare action painting invece di giocare, gente che arrosisce e si dipinge di rosso, scrittrici del partito che si vestono di bianco e fanno ospitate in tv per innalzare il tono ma vengono fagocitate dal sublime kitsch. La seconda lettura non è una novità, essendo piuttosto manifesta: Sorrentino da novello Pirandello vuole trasmetterci il concetto di umorismo, il sentimento del contrario. Vuole farci morire il sorriso in bocca, infierire sulla direttrice affetta da nanismo che si addormenta alla festa e la mattina dopo brancola nella solitudine. Ci regala un bel dramma dietro al ridicolo, esattamente come la vecchia imbellettata tanto cara a Pirandello. Ora, dopo questo cappello introduttivo da esegeta piuttosto in erba ritorniamo al nocciolo: ma l’ebraismo? Sorrentino adopera la ‘Roma strass e spumante’ per farne la sua commedia umana, un po’ come Garrone con Reality. La capitale tirata a lucido diventa il laboratorio del mondo. Per farlo non si esime dal gonfiare il petto e sfoderare un po’ di virtuosismo da esteti (Huysmans avrebbe apprezzato. O forse no), ma fondamentalmente ci dimostra la sua partecipazione al convivio umano, la sua humanitas di fondo. Ed è in questo che mi ricorda l’approccio ebraico. Se c’è una qualità che apprezzo nei rabbanim è l’uso spropositato del pronome ‘noi’. Noi siamo ancora qui. Noi facciamo delle cavolate madornali. Noi vogliamo migliorarci. Nessun ‘voi’. Jep Gambardella, antieroe da romanzo alla Mordechai Richler, osserva tutto con una sensibilità da poeta vate, eppure si rende conto di essere impantanato fino alla punta dei capelli ingellatinati in questa umanità disastrata. Anche lui cerca a suo modo la grande bellezza. Bellezza che a volte si concretizza nel grottesco e che alla fine cede il posto ad un proustiano ricordo. La grande bellezza è pronta a far capolino da un momento all’altro, nella nuvola di uomini con talled fuori dal tempio grande a Kippur, nei balli scatenati dei matrimoni ed anche semplicemente nella natura umana e quindi imperfetta, che ci lega tutti.
Rachel Silvera
(24 giugno 2013)