Qui Firenze – Porte aperte alla città
grazie a un nuovo successo del Balagan Café
“Eran seicento, eran giovani e forti…”. Ed erano vivi e vegeti, allegri e con tanta voglia di coinvolgimento i seicento spettatori arrivati ieri al Balagan Cafè, per la serata di incontro con la Comunità islamica e il concerto dell’Orchestra Multietnica di Arezzo, un ensemble di più di trenta musicisti che unisce artisti italiani ad altri di tutto il mondo. Una serata che si presentava delicata se non problematica per diversi aspetti, primo tra tutti il tempo che minacciava pioggia, poi la partita e per finire proprio il tema scelto, l’incontro con la comunità islamica che poteva far rinchiudere in atteggiamenti di pregiudizio e diffidenza o far temere un clima di tensione. E invece, ancora una volta, la città ha risposto con entusiasmo e curiosità. Le due comunità si sono incontrate, soprattutto in cucina, dove Sannà ha aiutato Monia Bartolini portando sapori e colori del mondo arabo: la forza del peperoncino e le spezie del riso egiziano si sono sposati con la delicatezza degli scacchi di verdure e la salsa di melanzane con il risultato di un creativo balagan che univa e mescolava due popoli e due storie (che si sa, come diceva la grande cuoca scrittrice Jenny Bassani Liscia, passano sempre dalla cucina). Si bevevano bevande analcoliche per chi le voleva, nel rispetto della tradizione islamica, ma scorreva anche a fiumi il balgan bitter sweet, il cocktail creato apposta per la serata che rinterpreta la tradizione simboleggiata dalla melagrana alla luce della modernità e della freschezza. Non è sangria, non è aranciata, non è un intruglio qualsiasi! Chiedetelo col suo nome, forte e chiaro: “voglio il balagan bitter sweet”! Perché anche il cibo, come faceva notare giustamente qualcuno, in queste serate non è “solo cibo”, è incontro, è cultura, è gioco, è conoscenza del gusto degli altri, da cui l’idea immediatamente approvata di avere un menu scritto che presenti le pietanze commentandole e raccontandone una breve storia, quasi si trattasse della lista dei personaggi più importanti di una commedia in attesa di entrare in scena. Con la musica poi è passato anche il freddo o forse lo si è sentito meno perché il ritmo sostenuto e festoso portava chi a darsi alle danze, chi a battere le mani e anche i più timidi a assecondare la melodia e il tempo con un piede ballerino. Sul palco si sono alternate la cantante albanese Eli Belaj commossa e emozionata che ha più volte ringraziato il direttore Enrico Fink e il suo gruppo “per averle permesso di essere qui”, il libanese Emad Shumann che non ha rinunciato al costume caratteristico del suo paese, la giovanissima Reta Borua che ha cantato in bengalese il ritornello della serata “Aye Khuku Aye”, presto diventato tra gli spettatori un’onomatopea, un tormentone, un modo per salutarsi, mentre invece – spiega Enrico – è una dolcissima canzone che parla dell’amore di un padre per la figlia attraverso l’esilio e la lontananza. Ora, dopo questi tre incontri e visti i numeri bisogna fare qualche riflessione. La città, si è capito, ha voglia di incontro: è spinta sicuramente dalla curiosità di conoscere uno spazio che per la maggior parte del tempo e negli anni è rimasto chiuso, a scoprire il giardino che si svela nella sua bellezza dietro al cancello di ferro; ma quello che piace davvero alle persone è entrare in un mondo, in una cultura, in una storia. “Vogliono vedere che non abbiamo la coda” scherza qualcuno. Ma dietro lo scherzo c’è una verità. Forse quel cancello è stato per troppo tempo chiuso, per ragioni anche giuste e motivate, la sicurezza, la paura di attentati in anni che non sono sempre stati facili. Ma adesso è necessario fare un atto di fede e credere negli altri. È necessario riconciliarsi e aprire il cancello. Era strano e bello vedere ieri insieme nello stesso luogo, a cantare, ballare, cucinare, mangiare, esponenti delle tre religioni, cristiana, ebraica e musulmana, tre religioni che per secoli si sono combattute e tuttora in molte parti del mondo continuano a essere ostili l’una all’altra. Ieri, davanti alla sinagoga, luogo di pace per eccellenza, si è tornati a essere figli dello stesso padre Abramo, e quindi fratelli. I fratelli possono litigare, addirittura vendersi come è successo a Giuseppe, ma alla fine devono perdonarsi, dice la Genesi. Devono frequentarsi, come propone Sannà che ci spiega che con un gruppo di donne all’Isolotto studia i testi sacri e che sarebbe interessante incontrarsi e confrontarsi con donne ebree che fanno lo stesso. Devono creare occasioni per parlare e discutere, magari anche durante l’anno, non solo una tantum. Se conoscersi, bere qualcosa insieme, ballare e cantare possono servire a superare pregiudizi e facili schematismi, possono far vedere che ebrei e arabi non hanno la coda e che i cristiani non sono la Santa Inquisizione, ben vengano queste serate. Ben venga il balagan!
Laura Forti
(28 giugno 2013)