Sul concetto di Giusto e su quello di giustizia

La problematica vicenda che sta coinvolgendo la figura di Giovanni Palatucci, il funzionario di polizia della questura di Fiume che, a detta di molti, fu salvatore di migliaia di ebrei negli anni delle persecuzioni più efferate e, di altri, invece, semplicemente la pedina di una manipolazione della sua immagine dopo la morte a Dachau, si presta a molte riflessioni. La stampa italiana ne è ha già abbondantemente parlato e sugli aspetti di merito non torneremo. Non è cura di queste note entrare nello specifico della querelle, peraltro non nuova, ovvero già conosciuta dagli addetti ai lavori, sulle plausibilità dell’una piuttosto che dell’altra ipotesi, anche se il supplemento d’indagini a questo punto si impone. Ben venga, quindi, quanto l’Unione ha deciso di fare, chiedendo al Centro di documentazione ebraica di Milano di muoversi in tal senso. Non si tratta di una indagine facilissima, peraltro. Se da essa dovesse derivare un ridimensionamento del ruolo di Palatucci si tratterebbe, nel qual caso, di una smentita dai tanti riflessi, poiché diverse autorità e non pochi studiosi hanno invece speso molte parole a suo favore nei tempi trascorsi. Detto questo, tuttavia, al di là della questione di che cosa effettivamente successe e, soprattutto, di quale ruolo egli giocò, dilemma che potrà essere per l’appunto risolto definitivamente solo sul piano della ricerca storica, qualche parola è corretto spenderla su alcuni aspetti che vanno oltre la vicenda in sé, coinvolgendo l’intera questione della “politica della memoria” e delle sue ricadute non sempre lineari. Politica della memoria nel senso che quest’ultima è divenuta un oggetto pubblico e, quindi, un elemento costitutivo delle identità collettive e quindi civili. Politica della memoria perché il ricordo, del pari alla testimonianza, entrambi nei loro infiniti riscontri labirintici, hanno progressivamente assunto una funzione che surroga e sostituisce il pensiero storico. Quest’ultimo, detto per inciso, non è affare dei soli accademici e neanche degli studiosi, ma chiama in causa innanzitutto le modalità, i luoghi, gli strumenti, gli obiettivi di una narrazione condivisa del passato. Così come il ricorso ad una seria metodologia, che non è pedantesco adempimento ad un rituale forzato ma adesione a criteri e a codici che permettano di comprovare affermazione che rischiano, altrimenti, di rimanere solo di principio, sospese nel vuoto di sopravvenienti smentite. La questione dei Giusti si inserisce in questo insieme di riflessioni. Tanto più straordinaria è la stata la loro funzione sociale in tempi così dolorosi, tanto più accurata deve essere la cura che si dedica loro e, di immediato riflesso, la cautela che va adottata quando se ne fa menzione e ricorso nel dibattito pubblico. Poiché Palatucci, al di là di quelli che saranno i risultati della riflessione che si è innescata sul suo ruolo, è stato fin da subito più personaggio che non persona. Intorno al primo un agglomerato di interessi, legati soprattutto alla famiglia come alla sua identità religiosa e professionale, sembra avere avuto la meglio su ordini di considerazioni maggiormente prudenti. L’incautela, se di ciò si è trattato, è servita a enfatizzare una sorta di modello di condotta prossima al martirio laico che se ha un valore simbolico molto alto per certuni, poco o nulla può dire a tanti altri, soprattutto rispetto alle tremende passioni dei tempi di cui fu testimone e, in qualche modo, protagonista. Il lascito dei Giusti, che a tratti si è trasformato nel suo uso mediatico, ha avuto molte funzioni. In parte ha assolto ad un ruolo di pedagogia civile. Non può però essere negato il fatto che in questi ultimi anni sia anche servito a surrogare e a sublimare (quindi a non elaborare) il senso di colpa per la completa mancanza di una risposta collettiva, in Italia così come in tutta Europa, dinanzi al disastro che si stava consumando con lo sterminio sistematico di una parte della sua popolazione. Una sorta di salvacondotto, per così dire, che ha contribuito a mettere la sordina, tanto più nel nostro paese, all’irrisolta questione del coinvolgimento del fascismo e delle amministrazioni pubbliche nella Shoah, semmai addirittura emendandone alcune responsabilità. Di fatto, comunque, ne ha spostato il fuoco, dalla dimensione critica – quella che deriva da un’analisi delle scelte comuni in quegli anni – ad un’immedesimazione umanitaria in alcuni individui. In questo caso, in coloro che salvando le vittime dal loro terribile destino, parrebbero avere in qualche modo concorso, ancorché del tutto inconsapevolmente, a preservare la verginità civile e morale di un intero Paese. Qualcosa di simile, fatte le debite proporzioni, era già successo con il partigianato e l’antifascismo, prima ancora che la deportazione e lo sterminio assumessero la rilevanza che si sono conquistati più recentemente. Si tratta di una questione delicatissima poiché siamo in presenza di quello che è stato anche un esercizio di autoindulgenza e di assoluzione collettiva. La storiografia ha più volte messo in discussione il paradigma fallace del «buon italiano». Non lo ha sostituito con un’immagine capovolta; più semplicemente, ha cercato di mettere ordine tra le diverse responsabilità. Un ordine di riflessioni, o per meglio dire di atteggiamenti idealizzanti, ha in questi casi invece poco a che fare con il senso autentico dell’azione di coloro che seppero scegliere la moralità in un’età di amoralità diffusa. Molto, semmai, con gli usi politici del ricordo. Non di meno, con la beatificazione laica di esseri umani che rimasero tali perché nei perseguitati videro l’immagine riflessa di sé e non degli oggetti il cui destino gli era trascurabile. Sarebbe ingenuo ritenere che la memoria sia esente dalle innumerevoli contaminazioni e dai tanti interessi delle grandi agenzie pubbliche, a partire da quei soggetti che, allora come oggi, ebbero un ruolo in ciò che stava succedendo, fosse stato anche solo un atteggiamento di omissione, in un quadro di responsabilità variamente distribuite ed assortite. Non di meno sarebbe intollerabile permettere di piegare gli eventi, e la loro interpretazioni, a interessi di circostanza, dettati dal bisogno non di conoscere, condividere ed, eventualmente, emendare, almeno laddove possibile, ma piuttosto a celebrare e incensare, “a prescindere” dai dati di fatto, determinate condotte. Per definizione l’azione di un soggetto pubblico, collettivo è di per sé sempre e comunque discutibile. Ma la cautela nel non alimentare polemiche pretestuose non può tradursi nell’affannosa ricerca di elementi per costruire apologie insindacabili. In questo, già da adesso, si ha l’impressione che l’immagine postuma di Palatucci sia stata soprattutto una pedina, indipendentemente da cosa (e come) egli abbia fatto o non fatto concretamente, all’interno di un gioco comunque più grande di lui. Dove interessi sopravvenienti – la famiglia, la parentela con un ecclesiastico, poi le spinte provenienti da alcuni settori religiosi ma anche il bisogno, in campo ebraico, di cercare, trovare e riconoscere qualcuno a cui essere grati, tanto più nel momento del ricordo di quella disgrazia collettiva, quando il senso della solitudine si era fatto invece intollerabile – e quant’altro hanno messo in moto una macchina che ha portato ad una meta che ora si rivela forse un po’ incongrua. Forse, poiché il lavoro di scavo è in atto e le sentenze appartengono solo ai tribunali. Sarebbe bene, a questo punto, che l’ulteriore evoluzione della vicenda non si traducesse in una sorta di plebiscito tra sordi, ossia tra sostenitori, al di là di qualsiasi riscontro di merito, di un’immagine che rischia di rivelarsi edulcorata e detrattori, anch’essi di principio, di una figura che potrebbe uscire dalla storia come più modesta di quanto non avremmo voluto. Sempre che le “controprove” confermino il quadro che secondo certuni va delineandosi. Palatucci finì anzitempo i suoi giorni a Dachau. Questo sarà “poco” ma è certo. Visse la contraddittorietà dei suoi tempi. La visse come giovane funzionario di un apparato dello Stato collocato in una città, Fiume, che ebbe un ruolo strategico, essendo lo snodo di molte vicende, non solo ebraiche. Non si tratta di un oggetto di tifoseria. La quale, invece, se dovesse esprimersi, sarebbe solo l’ultima pietra tombale, destinata a dare fiato a revisionismi di accatto, che è bene risparmiarsi nell’interesse di tutti. La sacralizzazione del passato rischia di creare dei totem che poi qualcuno abbatterà, dicendo che «non bisogna avere tabù». La Repubblica italiana non necessita di eroi. La giustizia non ne chiede. Mentre invece le virtù riposano nell’ordinarietà, quand’essa non è la cifra della indifferenza bensì di un’esistenza cosciente, che come tale si assume le sue responsabilità. Basti pensare alla modestia dei Giusti medesimi, a partire da Giorgio Perlasca, che di sé diceva quel tanto che occorreva per qualificarsi come uomo del suo tempo. Uomo che sfidò il suo tempo e di cui ci si ricordò molto tempo dopo.

Claudio Vercelli

(30 giugno 2013)