Taksim, la piazza della speranza
“La mia casa è stata assalita dalla polizia la scorsa notte, hanno lanciato due bombe che hanno distrutto le finestre. Siamo vivi per miracolo. In questo momento sto cercando di riprendermi dallo shock e di riparare i danni. Possiamo sentirci stasera?”. Queste parole, che colpiscono come macigni, sono la risposta di un giovane di Istanbul, Igal Aciman, alla richiesta di fare una chiacchierata per capire come la comunità ebraica della città viva le proteste contro il governo. Ragazzi e ragazze, fermi, colorati, pacifici, decisi a far sentire la propria voce per affermare qual è il futuro che vogliono per il proprio paese. Per qualche giorno la gente di piazza Taksim e quella di altre decine di manifestazioni simili in tutta la Turchia, è riuscita non soltanto a tenere sotto scacco i propri leader, ma persino a catturare l’attenzione di una comunità internazionale che guarda ai destini dei popoli in modo sempre più distante e apatico. Fattore che non ha scoraggiato il premier turco Tayyp Erdogan, leader del partito islamico AKP, dallo sgomberare Taksim, e il parco Gezi, la cui salvaguardia è stata la scintilla che ha acceso il dissenso, con una brutalità che colpisce ancora di più, paragonandola alla serena determinazione dei manifestanti. Igal è un imprenditore, ha studiato in America, ad Harvard e a Yale, e ha lavorato per la società di consulenza McKinsey, ma ha anche una passione per il giornalismo. Tiene un blog e occasionalmente scrive di Turchia per il Jerusalem Post. La sera, al telefono, è più tranquillo e acconsente di condividere la sua prospettiva su quello che sta accadendo “La situazione è molto tesa. La polizia ha sempre represso le manifestazioni, ma non si era mai spinta a questi livelli”. Igal racconta di un paese diviso, forse diviso come mai prima nella sua storia. “Io all’inizio supportavo le politiche di Erdogan. Per molto tempo ha fatto benissimo per l’economia del paese, aprendola, trasformandola. Poi è diventato sempre più autoritario, lanciando campagne contro l’aborto, le effusioni pubbliche, il consumo di alcol. E anche la situazione dei mezzi di comunicazione è terribile. Sui social network la gente vede quello che accade e poi giornali e televisioni raccontano una storia completamente diversa”. E la comunità ebraica, che in Turchia conta circa 23mila persone, per la maggior parte proprio a Istanbul, dove sono attive oltre 15 sinagoghe e una scuola? “Sicuramente la gente della comunità guarda con favore alla lotta per la salvaguardia della democrazia. Allo stesso tempo però c’è la paura di venire presi di mira, di diventare il capro espiatorio, cosa che in parte già avviene nei media”. Una comunità ebraica, quella turca, in cui la parola d’ordine sembra essere mantenere un profilo basso. Lo spiega anche Moris (che chiede di usare un nome di fantasia), 25 anni, ingegnere, che da qualche anno vive in Israele. “Tutti i miei amici sono andati a Taksim, tutti. Ma senza identificarsi in nessun modo come ebrei, come gruppo. Dopo la Mavi Marmara, l’antisemitismo e la pressione su di noi sono cresciuti. Anche per questo tanti se ne vanno”. “C’è grande ignoranza in Turchia su Israele e sugli ebrei – ammette Joelle Dana, in perfetto italiano (diploma al liceo italiano e università a Milano), che però sottolinea – Io personalmente non ho mai vissuto un episodio di antisemitismo. Ai tempi dei nostri genitori la gente della comunità faceva una vita molto separata. Loro sono spaventati. Noi giovani invece abbiamo frequentato scuole non ebraiche, abbiamo spesso più amici musulmani che non. Oggi io non ho paura, sento una grande speranza. Da anni si percepisce la continua islamizzazione della società, e i giovani sono stufi di sentirsi dire cosa fare. E per questo in piazza c’è gente di ogni tipo, musulmani moderati, ebrei, armeni, studenti in Erasmus. La repressione è dura, ma noi andremo avanti”.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche luglio 2013