Appartenenza e identità
L’ebreo dell’Europa occidentale, più numeroso, dopo l’emorragia, per la Shoah, di quello orientale, e oggi rimasto quello più vitale, non dovrebbe confondere, se non fosse per la sua carenza di senso storico, l’appartenenza di cittadinanza con quella di identità; e tanto meno equiparare ed addirittura, subordinare la seconda alla prima.
E invece questo si sta verificando in tutto il mondo ebraico contemporaneo:in Europa,in America, nello stesso Stato di Israele.
La nostra appartenenza alla classe borghese è divenuta la nostra universale condizione, sovrapponendosi alla particolarità identitaria di essere un gruppo-un popolo-etnico-religioso.
E molto di ciò è avvenuto in conseguenza dei modi coi quali si è andato realizzando il processo emancipatorio degli ultimi due secoli, liberalizzando la condizione individuale dell’ebreo, ma mai seguita da un pari riconoscimento collettivo-
Gli individui ebrei si sono emancipati, si sono andati, sempre individualmente,assimilando,integrandosi, rinforzando la loro appartenenza di classe, realizzando le loro intraprese nelle libere professioni e nelle più moderne attività, a tutto discapito della loro identità di gruppo. Siamo vissuti in una secolare illusione che la Shoah ha spaventosamente disincantato.
E anche oggi – nonostante la rinascita di uno Stato ebraico, siamo preda della stessa illusoria fiducia. A cosa attribuire questa sciocca ed ostinata fiducia se non alla nostra appartenenza di classe? E ancora da questo punto – che solo ci unifica, molto vediamo, valutiamo, facciamo anche le nostre riflessioni critiche.
Tutto il nostro argomentare intorno ai nostri valori, ebraico-sionisti o giudaici, sono offuscati da questo modo di vedere “altro” e che storicamente non ci appartiene.
Noi “travisiamo” tutto quello che vediamo attraverso una visione, unificante e deformante, illusoria ed infedele. Noi valutiamo i nostri valori attraverso quelli creati da una
modernità “altra” dalla nostra, conseguendo una pseudo identità, “riflessa”.
Un paradosso si è andato realizzando nel nostro periodo recente storico, rispetto a quello pre-emancipatorio: in questo,nel “lungo esilio”, pur essendo discriminati sempre,rinserrati nei ghetti,perseguitati cruentemente spesso o qualche volta, a seconda del nostro collocarci, salvandoci spesso con frequenti emigrazioni da un paese all’altro, siamo sopravvissuti mantenendo una robusta identità; e questo, nonostante i primi secoli dell’epoca moderna, quando anche noi abbiamo quasi perduto il senso della nostra storia,ancora presente negli ultimi secoli del basso medioevo e del primo rinascimento; e quando, con l’emancipazione anche noi abbiamo riacquistato, preparato da altri, il nostro senso storico, conseguente al romanticismo europeo,il nostro senso identitario si è andato indebolendo; ci siamo indeboliti, su questo versante,quando avevamo a disposizione molti strumenti che avrebbero potuto rinforzarlo. Abbiamo “ricordato”, ma non secondo la “memoria culturale” che la tradizione aveva forgiato nel “lungo esilio”, ma secondo le modalità del “ricordo”, sviluppatesi durante il periodo della nostra emancipazione. Durante quel periodo,”quel” ricordo è stato tradito: anziché ricordo vitalizzante e dinamico,è divenuto un ricordo “ingessato e cristallizzato”.
Con la ricerca primaria dell’appartenenza abbiamo mutilato quell’antico ricordo.
Con l’emancipazione è entrato in crisi il giudaismo della nostra tradizione.
E fra i sionisti più ricchi di storia le critiche maggiori si appuntarono contro quello che era divenuto il giudaismo nel secolo XIX°, mentre furono più cauti nel criticare il giudaismo dei secoli del “lungo esilio”. Essi-durante il cinquantennio dell’yishùv dettero vita, come movimento storico politico ed intellettuale,alla rinascita ebraica,come realizzazione territoriale pratica ed attiva nell’antica terra promessa. Il nemico interno da contrastare era il giudaismo “ingessato”, mi ripeto -del periodo emancipativo.
Oggi, mi sembra, stiamo tornando indietro la “diasporizzazione” emancipatoria sta riprendendo il sopravvento.. Il mio dire mira ad indebolire questo pericolo, facendolo, come prima cosa avvertire e riconoscere.
La nostra “prima pelle” è sempre quella borghese, e, attraverso quella, ci si illude di riconoscere la nostra “pelle” ebraica. Io credo che la scelta da fare sia difficile e dolorosa, ma necessaria: io chiedo non poco: uno scorticamento. E col chiedere questo so bene a cosa vado incontro: o all’isolamento od a una furiosa critica.
Ma questo, poi, non ha importanza per me. Nutro una speranza: gli storici ebrei italiani stanno operando saggiamente, cercando con le loro analisi di coniugare storia “e” memoria; e in questa piccola congiunzione vedo uno spiraglio che merita di essere allargato; noto che si fa strada l’avvertimento di Yerushalmi di fuori uscire dal vedere la nostra storia dall’”eterna e presente contemporaneità”, che è, in fondo, il modo prevalente di vedere di ogni fondamentalismo.
Con questo mio dire voglio gettare un sasso nello stagno.
Non è stato l’imborghesimento conseguenza dell’assimilazione, ma, al contrario,l’assimilazione conseguenza del primo.
Nutro, mi ripeto, una speranza: la rivitalizzazione della memoria attraverso seri studi storici potrà essere un segno premonitore di auspicati cambiamenti innovativo, segnale significativo per tornare a “vivere” e non soltanto “sopravvivere”; e questo perché le modalità per sopravvivere, data la nostra esiguità numerica e con quella appartenenza, saranno sempre più, nel prossimo futuro, di difficile realizzazione.
Alfredo Caro