“Se non ci rivedessimo, ricorda”
Cento lettere per raccontare i destini di una famiglia ebraica europea. Dopo l’edizione tedesca (Falls wir uns nicht wiedersehen – Prospero Verlag) ecco l’edizione italiana di “Nel caso non ci rivedessimo. Una famiglia tra deportazione e salvezza 1938-1945”, la raccolta dei messaggi scambiati tra Ilse Klein (Colonia 1913 – Milano 2001) e i suoi genitori: l’avvocato Siegmund Klein e sua moglie Helene Mayer. A curare il volume il figlio di Ilse e del marito italiano Piero, Giorgio Sacerdoti, presidente della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea, ordinario di Diritto internazionale all’Università Bocconi e Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Questo pomeriggio alle 18, nell’aula 3 di via Sarfatti 25 dell’Università Bocconi di Milano, la prima presentazione dell’opera. Assieme al curatore interverranno Piergaetano Marchetti e Ulrico Hoepli.
Le parole – “Nel caso non ci rivedessimo” – che Giorgio Sacerdoti ha scelto come titolo di questo suo libro di lettere, lettere che conservano una struggente testimonianza di quella che fu la sofferta sopravvivenza e fine di un nucleo familiare di ebrei tedeschi, fino alla deportazione ad Auschwitz del capofamiglia Siegmund Klein, sono il cuore della frase di una lettera, datata 16 ottobre 1943, di Siegmund alla figlia Ilse, mamma di Giorgio. Siegmund è l’unico della famiglia rimasto ad Amsterdam, dove i Klein avevano cercato rifugio fuggendo dalla Germania di Hitler; mentre Ilse, col marito italiano Piero Sacerdoti e il neonato, Giorgio, è al sicuro a Nizza, nella Francia occupata, e protetta, dall’esercito d’occupazione italiano. Non ci fu colpa né merito, come scrisse Primo Levi, nell’essere “sommersi, o salvati”, tutti “in balia di un cieco fato e della malvagità dell’uomo”. Nella lettera precedente, del 2 ottobre 1943, Siegmund si era chiesto se avrebbe mai conosciuto il nipotino, e scriveva: “Piacerebbe anche a me godermelo. Succederà mai? Se no, cara Ilse, pensa sempre alla bella poesia di Schiller ‘Agli amici’: Noi vivremo. Le ore sono nostre. E chi vive ha ragione”. Scrivendo di nuovo alla figlia il giorno 16, quando già sapeva imminente la deportazione, anche se nella lettera descrive le sue giornate come serene e tranquille, riprendeva il filo dello stesso discorso: “Se potessi vederlo anch’io almeno una volta! Succederà mai? ‘Senza criterio (ancora una citazione da Schiller) la sorte distribuisce i suoi doni – Senza equità è la fortuna – Perchè Patroclo giace sepolto, e Tersite torna indietro’. Per vedere lui e voi preferirei essere come quest’ultimo”. E proseguiva: “Falls wir uns nicht wiedersehen”,”Se non ci dovessimo rivedere, cara Ilse, pensa sempre che l’Inno alla Gioia inizia con ‘Gioia, bella scintilla divina’, ma si chiude con: ‘Saldo coraggio, quando la sofferenza è grande’.” In un’altra di queste lettere alla figlia, Siegmund, dopo essersi chiesto di nuovo “Rimarremo in salute, e potremo vedere il bambino?”, concludeva citando ancora un poeta tedesco dell’Ottocento, Ferdinand Freiligrath: “Se no, pensate sempre alla bella poesia di Freiligrath, che dice: Sull’albero dell’umanità – un fiore segue l’altro. – Si dondola su di esso secondo regole eterne – Quando uno sfiorisce, opaco e avvizzito – Spunta l’altro, pieno e meraviglioso”. Il fatto è che questi ebrei, che Hitler voleva assolutamente annientare, erano per formazione culturale e sentimenti profondamente tedeschi. Le dotte citazioni da testi di Goethe, di Schiller, e di altri scrittori ancora, sono tanto numerose da apparire sorprendenti. Ma posso testimoniare che anche gli ebrei italiani perseguitati si sentivano profondamente italiani e non cessarono di esserlo. La nostra reazione alle leggi razziali fu molto simile a quella degli ebrei tedeschi, come viene descritta in questo libro: uno strano misto di sorpresa e di ingiusta offesa; ma non ci fu mai traccia di odio per l’Italia. Queste lettere offrono un’immagine tanto più angosciosa quanto più apparentemente normale del tempo dell’attesa di una sorte che forse, in cuor loro, gli scriventi sanno essere già segnata; come è scritto in una di queste lettere: “le favole non hanno nessun senso perchè il ritorno alla realtà poi è ancora peggiore!”. Nella famiglia Klein, il primo dei deportati è il figlio Walter, il cui tentativo di attraversare la Francia e raggiungere la Spagna, e di lì la salvezza, finisce con l’arresto nella Francia di Vichy, ansiosa soltanto di consegnare ai nazisti tutti gli arrestati. Anche con i loro bambini; sappiamo bene che la sorte dei bambini, come dei malati o dei vecchi, era segnata fin dal momento del loro arrivo in lager: li attendeva l’immediato avvio alle camere a gas. Quando Siegmund, e la moglie Helene, ricevono ad Amsterdam, il 27 agosto 1942 , l’ultima cartolina di Walter dal campo di detenzione francese di Drancy, questi è già nel convoglio in viaggio per Auschwitz. Di ciò i genitori non avranno mai notizia. Helene morirà senza saperlo, di morte naturale, nel dicembre del ’42, dopo un ricovero sotto falso nome in un ospedale olandese. Ma Siegmund non darà mai notizia della sua scomparsa nelle lettere che continuerà a scrivere alla figlia, firmando le lettere “I genitori”. A prima vista questa scelta può apparire strana. Ma in verità bisogna rendere merito alla saggezza e al coraggio di Siegmund: un anziano signore ebreo, ancora in vita ad Amsterdam alla fine del ’42, dove vive in clandestinità, tra continue notizie di deportazioni e lui stesso in attesa di una fine forse vicina, che non vuole trascinare la figlia lontana, inaspettatamente serena e al sicuro, nell’atmosfera di morte in cui trascinava i suoi giorni. La deportazione di Siegmund da Amsterdam avverrà nel novembre ’43. Allora sa già, da Radio Londra, che c’è stata una svolta nella guerra, dopo la sconfitta tedesca a Stalingrado. Ma, come scrive in una lettera del 22 maggio ‘43, non si fa più illusioni. Pensa che per arrivare a vedere il bambino di Ilse “ci vorrebbe troppo tempo, almeno un altro anno e mezzo. Non resisterò così tanto, non ho più interesse nella vita”. La lunga corrispondenza, che si fa via via più angosciosa, si conclude con una cartolina di Siegmund a Ilse del 2 novembre 1943 da Westerbork: da quello che era il campo di raccolta in Germania degli ultimi ebrei arrestati in Olanda, in attesa della deportazione ad Auschwitz. Da Westerbork partiva un treno alla settimana, come risulta dai puntuali registri nazisti, ciascuno con circa mille persone. Siegmund sapeva bene che cosa gli sarebbe successo. Colpisce e commuove il tono sereno anche dell’ultimo messaggio: “Sto bene e spero di rivedervi presto… Ho abbastanza da mangiare, lavoro anche, dormo bene. Se non potrò più scrivere, non vi preoccupate, resisterò. Non speditemi nient’altro che lettere”. Partirà per Auschwitz il 16 novembre ‘43, col 58° convoglio partito da Westerbork. Scrive Giorgio Sacerdoti: “Sappiamo che, eccezionalmente quasi la metà dei deportati furono all’arrivo trovati idonei al lavoro forzato. Quanto agli altri, 551 uomini, donne, bambini, tra loro ovviamente Siegmund, all’arrivo li attendeva la soluzione finale”. Questa tragica storia ha una conclusione che non si può non definire singolare. Ilse, che nulla ancora sapeva né della fine di Walter e Siegmund, né di ciò che significasse Westerbork, chiese un suggerimento al Consiglio ebraico di Amsterdam, che in una lettera, davvero incredibile, le rispose suggerendole di spedire al padre i suoi saluti ”in lingua tedesca”, indicandole, come indirizzo: “Campo di raccolta Auschwitz/Slesia Superiore, Germania” e inoltre nome e cognome, data di nascita, e “partito dai Paesi Bassi con il trasporto del 16 novembre 1943”. Ilse, dalla Svizzera dove intanto, e appena in tempo, tutta la famiglia Sacerdoti si era rifugiata dopo l’8 settembre ’43, indirizzò dunque le sue ultime cartoline a Walter e Siegmund ad Auschwitz, anche se le speranze di una riposta erano poche. Ma ricevette una risposta; o meglio, ricevette, in risposta, le sue stesse cartoline, con sopra un timbro a stampa, oltre a quello rotondo della censura con la croce uncinata, che diceva: “Il campo rifiuta la consegna. Respinta al mittente”. Da Auschwitz, osserva Giorgio Sacerdoti “pochissimi sarebbero tornati, e solo a guerra finita. La cartolina di Ilse invece andò e tornò dall’inferno”. E’ difficile, in una introduzione a questo “libro di lettere”, non ricorrere, per preparare il lettore all’incontro con questa testimonianza “dall’inferno”, a citazioni dalle lettere stesse. Le lettere restituiscono agli autori, in qualche modo, la vita, quella vita che sapevano non sarebbe stato loro concesso di vivere. Quella cartolina che rimane, indirizzata al “Dr. Sigmund Klein di Colonia” inviata ad Auschwitz e tornata da Auschwitz, tocca profondamente il cuore. In qualche modo, è più vera di tutte le cose incredibili e vere che sono state scritte sulla Shoah. Il “piccolo Giorgio”, destinatario inconsapevole di molte di queste lettere, a cui la sorte ha concesso di vivere una vita di successo, lunga e operosa, ha compiuto una sorta di sacro dovere raccogliendole e pubblicandole, prima di tutto in Germania, e nella lingua che è il più delle volte quella originale, ossia il tedesco. La versione italiana di questo libro straordinario, più ampia nella parte che si riferisce all’Italia e alle vicende italiane dei protagonisti (vicende che la gran parte degli italiani non conosce, anche se riscattano, sia pure in parte, la tremenda responsabilità che l’Italia ebbe nella Shoah), riuscirà per molti lettori sorprendente. Molto tempo è passato da quelle drammatiche vicende. Ma non si stupisca il lettore se le troverà inaspettatamente attuali. Le radici del Male sono presenti, e producono inaspettatamente i loro germogli, in luoghi e tempi i più diversi. Questa è la vita che ci è dato vivere.
Arrigo Levi
(18 luglio 2013)