In cornice – Aliot

liberanomeCosa si provava, nel secolo scorso, ad abbandonare la propria terra d’origine? Ansia di scoperta, certo, ma anche nostalgia e volontà di appropriarsi al più presto dei simboli del paese adottivo. Di questo si occupa la mostra “Displaced Visions Emigré Photographers of the 20th Century” ora esposta al museo di Israele a Gerusalemme – ma anche del rapporto fra Israele e diaspora. Già, perché sistemare una accanto all’altra fotografie di olim e di immigrati a Parigi, o a Londra o a New York, significa voler inserire il fenomeno dell’aliyah prima e dopo la Shoah, all’interno di un contesto più generale, e quindi farla scendere dal piedistallo in cui era stata posta dal sionismo. I curatori vogliono dirci che abbandonare l’Europa per andare in Israele, anche dopo la Shoah, anche dopo aver visto gli aguzzini europei all’opera, comportava un dolore e una sensazione di perdita di riferimento che non era poi così dissimile a quella degli emigrati nel Nuovo Mondo. “Nipote e nonna in viaggio verso la patria” di Schweig racconta tutto questo, con le due donne, di generazioni lontane, che mantengono gli occhi ancorati alla terra che abbandonano. Lo stesso per “I biglietti dell’autobus” di Gerard Alon, con la strana importanza attribuita a simboli della vita quotidiana israeliana; appartiene allo stesso filone delle fotografie – molto interessanti – di Inge Morath a Londra o di Germaine Krull a Parigi. Osservare le emozioni della aliyah senza la lente ideologica del sionismo, ha a che fare anche con il diverso significato psicologico dell’immigrazione di oggi rispetto a quella del secolo scorso: allora si trattava di una scelta pressoché irrevocabile, e tornare stabilmente in patria era un sogno o poco più. Oggi, fare l’aliyah non comporta tagli traumatici e facilmente, in poco tempo, si può tornare fisicamente e mentalmente da dove si era partiti. O forse non staccarsene mai. Lo testimoniano gli immigrati russi, ma anche i cosiddetti “Olim fiscali” che “immigrano” in Israele per godere di vantaggi sull’esportazione valutaria. Non sono certo dei trapiantati in Israele.

Daniele Liberanome, critico d’arte

(22 luglio 2013)