La Polonia, la shechitah, il Vaticano e il Rabbinato italiano

gianfrancoLa settimana scorsa abbiamo letto su queste colonne che in Polonia è in atto una legge contro la shechitah, la macellazione rituale ebraica, e che di conseguenza la preoccupazione presso le comunità ebraiche polacche sta salendo. Jonathan Orenstein, direttore dello Jewish Community Center di Cracovia, ha comunicato: “Per la prima volta, ho la sensazione che stiamo tornando indietro”. Chissà se in questo non auspicabile ritorno al passato sarà incluso un possibile intervento del rabbinato italiano presso il Vaticano, come in effetti avvenne all’inizio del 1936, quando importanti rabbini d’Europa e della terra d’Israele si rivolsero a rav David Prato, all’epoca dei fatti rabbino capo d’Alessandria d’Egitto e che presto sarebbe diventato rabbino capo di Roma, per esercitare pressioni in Vaticano a favore degli ebrei polacchi. Così scrive Prato in un inedito testo autobiografico:
Gli ebrei polacchi cercarono di difendersi con tutti i mezzi [dalla legislazione contro la shechitah]. A qualcuno balenò l’idea non del tutto bislacca, che in una lotta di quel genere, per cui veniva così vilmente violentata la coscienza di milioni di uomini, colpevoli soltanto di volersi mantenere fedeli alla propria Legge, senza offendere per nulla quella del paese nel quale vivevano, avrebbero dovuto intervenire i rappresentanti di quell’istituto […]: il Vaticano. E ricordandosi che sulle rive del Nilo un modesto rabbino italiano, che si riteneva [da loro] benvisto dal Governo italiano, reggeva le sorti di una importante e vetusta Comunità si pensò che solo da lui ci si potesse aspettare un gesto capace di provocare un intervento del Vaticano. Così avvenne che sulla fine del febbraio 1936 mentre ferveva in pieno la vita nella mia Comunità fui pregato di recarmi a Roma a questo scopo. L’invito mi veniva rivolto dal Rabbinato polacco per tramite del Rabbino dr. Herzog, allora a Dublino, al quale si era rivolto il venerando Gaon Haim Grodzinski di Vilna.
Rav Prato ebbe poi un fitto scambio di lettere sia con rav Isaac Herzog che con rav Grodzinski e altri rabbini, fra cui rabbi Jacob Meir, rabbino capo sefardita della terra d’Israele. Lo stesso Herzog, polacco di nascita e rabbino capo di Dublino e d’Irlanda, l’anno successivo sarebbe diventato rabbino capo ashkenazita della terra d’Israele, succedendo a rav A.Y. Kook. Che rabbini di tal levatura si siano rivolti, con grandi parole di stima e di onore, al “modesto rabbino italiano” di Alessandria è un fatto di un certo significato che dà lustro all’ebraismo italiano. Quando, nel settembre del 1936, rav Prato fu nominato rabbino capo di Roma, rav Herzog gli scrisse una calorosa lettera in cui gli augurava di poter rialzare lo spirito della Torah nell’ebraismo italiano e “restituire la corona ai tempi antichi”, cosicché l’Italia ebraica potesse tornare a occupare un posto importante nel mondo ebraico globale. Prato, scriveva Herzog, avrebbe sicuramente potuto aiutare non solo “gli ebrei d’Italia, un paese che si comporta rettamente con i nostri fratelli che vi risiedono, ma con tutti i fratelli ebrei del mondo”. L’Italia, più a torto che a ragione, era considerata un paese di importanza primaria nello scacchiere europeo, con il vantaggio – così sembrava – di non essere affetta dal veleno dell’antisemitismo. Questa percezione, che oggi noi sappiamo essere completamente erronea, è all’origine delle pressioni che i grandi rabbini europei fecero sul rabbinato italiano. Rav Prato, durante i pochi giorni passati a Roma nel marzo 1936, riuscì a incontrarsi con i rappresentanti del governo italiano (incluso il capo del governo di quegli anni) e con l’ambasciatore polacco in Italia, mentre al Vaticano incontrò il cardinal Pacelli (che era di fatto la più alta autorità cattolica, visto che il papa era “vecchio e indisposto” e non “aveva quasi più la possibilità di esercitare nessun controllo sugli affari e sulla direzione spirituale del mondo cattolico”) e il monsignor Tardini.
La missione, a detta di Prato, ebbe successo. Le autorità cattoliche asserirono che “è carità cristiana intervenire ogni qualvolta i sentimenti religiosi sono offesi”. Rav Prato conclude il suo testo autobiografico con queste parole: “Certo è che se la legge non fu emanata allora e se si cercarono più tardi dei pretesti per rinviarla, per modificarla e per mutilarla lo si deve al tempestivo intervento del Vaticano”.

rav Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano

(Tratto da un mio articolo su La Rassegna Mensile di Israel, LXXVIII, n. 1-2, genn.-ago. 2012, pp. 167-179; ringrazio Mario Toscano e Angelo Piattelli per avermi fatto conoscere questa vicenda)

(1 agosto 2013)