Un campeggio, il campeggio
Nei miei placidi pomeriggi passati a guardare le foto di facebook, mi sono imbattuta in quelle dell’Avodà: un, ma che dico, IL campeggio del Bene Akivà della durata di tre settimane che prevede di visitare Israele in lungo e in largo. Tendenzialmente dovrebbe essere il coronamento di infiniti campeggi invernali passati a pattinare, puntate estive a Mirabilandia, canzoni stonate all’Eurovision e tende e sacchi a pelo del viaggio da Hashomer Hatzair wannabe: il Sayarim. Studiavo le felicità negli occhi dei ragazzi di questa generazione e pensavo a me sei anni fa. Partire con una valigia enorme e con la consapevolezza di non poterla disfare mai, mi agitava non poco. Nemmeno fare gli acquisti di rito, shampoo+balsamo+struccante+gloss-che-fa-sempre-comodo, placava le mie ansie. Ero reduce da un Sayarim allucinante passato nella speranza di tornare da mamy e papy il più in fretta possibile; ce l’avrei fatta a sopportare ventuno giorni di vita sociale obbligata, avventure sportive e del duo cappello-borraccia, io che rifuggivo con tutta me stessa il concetto di borraccia? Alla fine feci un patto con me stessa ed andai. E non fu nemmeno niente male: ovviamente non rivolgevo la parola a nessuno se non alle solite amiche di fiducia, non mi sono innamorata di alcun baldo giovane del gruppo perché tanto sarebbe stato un fastidio inutile e una delusione annunciata e sono riuscita persino a stringere un nuovo sodalizio: quello con Israele. Dopo cinque giorni di prove atletiche, prima delle quali un simpatico compagno di viaggio disse a gran voce: “Mi gioco tutto che la prima a piangere sarà Rachel” (per la cronaca non ho pianto), mi sono ritrovata a Rosh Hanikrà in una sorta di nirvana-barra-stato di grazia. Se fossi stata più intelligente mi sarei sentita come Goethe mentre fa il Grand Tour in Italia. Ma mi basta aver voluto bene sinceramente ed ingenuamente a quella terra della quale tanto fantastichiamo da lontano.
Rachel Silvera, studentessa
(12 agosto 2013)