Periscopio – Lech Lecha
Opportunamente, tra le manifestazioni promosse nell’ambito della settimana di cultura ebraica Lech Lechà (la cui seconda edizione, com’è noto, inizierà la prossima domenica 25 agosto, con ben 111 eventi programmati in diverse località pugliesi), è stata inserita, lunedì 26, alle ore 17, presso la sala Rossa del Castello di Barletta, la presentazione di un libro di grande importanza, già solido punto di riferimento per la storiografia contemporanea: Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento, di Anna Foa (Ed. Laterza). Come accade, inevitabilmente, per ogni studio sulla storia ebraica – e come abbiamo recentemente avuto modo di notare, in una nota sulla Storia degli ebrei in Italia, di Riccardo Calimani (apparsa sul mensile Pagine Ebraiche di agosto) – anche il contenuto di questa storia degli ebrei va, inevitabilmente, al di là di quanto enunciato nel titolo, giacché va ad abbracciare anche la storia degli altri, dei ‘goyìm’, al cui interno si sono sviluppate le vicende del popolo disperso. La storia degli ebrei come “storia del mondo”, e la “storia del mondo”, filtrata attraverso la particolare lente d’ingrandimento della storia degli ebrei, trovano, nelle pagine della Foa, una ricostruzione attenta e precisa, dalla quale la drammaticità degli eventi narrati emerge con forza, da un racconto avvincente, ricco di spessore e profondità.
In quanto storia del Novecento (anche se la narrazione, in realtà, va dal 1880 alla fine degli anni Settanta del XX secolo), ossia di un secolo ancora così vicino a noi, lo studio della Foa è soprattutto un’interrogazione su di noi, sul nostro presente, su tutte le coordinate culturali, ideologiche, politiche e psicologiche entro cui siamo abituati a muoverci, ad agire e a pensare. “Chi sono gli ebrei del Novecento? – chiede l’autrice – Non si può… negare che essi siano una realtà estremamente molteplice, come complessa e variegata è l’immagine che hanno lasciato di sé. Un’immagine prevalentemente simbolica, caricata di tutta la forza del simbolo”. Ma, alla fine dell’Ottocento, questa forza simbolica cambia, in quanto diventa “un’espressione autonoma del popolo ebraico, una forma di autorappresentazione in positivo, mente nei secoli precedenti si trattava di una valenza attribuita agli ebrei dall’esterno, in quanto popolo testimone, in quanto increduli e deicidi, e soprattutto in quanto simbolo dell’alterità”. Ma, continua la Foa, “qual è il rapporto tra simbolo e realtà? Si tratta di un’immagine, questa dell’ebreo del Novecento, creata dalla memoria, dalla rappresentazione, o se vogliamo autorappresentazione, che si alimenta di se stessa e non è, in fondo, che una creazione mitica? Oppure dentro quel mito c’è uno spessore di realtà che lo nutre e lo sostanzia, e che ne rappresenta l’ineliminabile vitalità?”.
Domande, naturalmente, a cui appare arduo dare risposta, così come appare difficile tracciare il discrimine tra “autorappresentazione in positivo” e “rappresentazione imposta dall’esterno”. Sarà mai possibile immaginare una storia degli ebrei, per così dire, “desimbolizzata”? Scevra di ogni rappresentazione, o autorappresentazione simbolica? Si tratterebbe di immaginare qualcosa che non esiste, che non è mai esistito. Viene da pensare al dibattito tra Eduard Meyer e Moses Finley (recentemente studiato da Federico d’Ippolito), col primo dei due che rivendicava all’immaginazione il compito di scoprire la verità, e il secondo che rigettava tale assunto. Al momento attuale, l’immaginazione di una storia “desimbolizzata” pare ancora impedita dal peso di millenni di “rappresentazioni simboliche”, di ogni tipo.
Francesco Lucrezi, storico
(14 agosto 2013)