Lo stato di emergenza e l’emergenza come stato abituale
La vicenda egiziana, con i suoi purtroppo prevedibili sviluppi, violenti e sanguinosi, conferma la gravissima situazione di stallo in cui le forze e gli attori contrapposti si trovano non solo al Cairo ma un po’ in tutto il Medio Oriente. Alla persistenza della protesta dei sostenitori di Mohamed Morsi, infatti, le forze armate, di fatto l’unica vero pilastro della politica in quel paese, hanno risposto con una radicale militarizzazione della repressione, causando un numero imprecisato di morti. Si è accompagnata così la proclamazione dello stato di emergenza. Non di meno, nel mentre gli scontri di piazza e le liquidazioni degli avversari si consumavano a cielo aperto, il presidente ad interim Adli Mansour, privato di El Baradei (l’unica figura civile non immediatamente compromessa con le forze armate), provvedeva a nominare venticinque nuovi governatori, tre quarti dei quali appartenenti all’esercito o alla polizia. Con la compiacenza del vero uomo forte della situazione, il generale al-Sisi, comandante delle truppe egiziane. La tregua armata con i vincitori delle elezioni è quindi finita in un bagno di sangue. Dopo le pressioni del movimento popolare Tamàrrud (letteralmente «ribellione»), che avevano portato al golpe del 3 luglio scorso, con la rimozione del presidente eletto e la sua sostituzione con organismi temporanei, in attesa di un nuovo ciclo elettorale, si è quindi arrivati ad una prima resa dei conti. Il risultato delle urne è stato definitivamente congelato (come era avvenuto nell’Algeria del 1992, poco prima che in paese precipitasse in una furiosa, tragica e lunga guerra civile) e nelle piazze, così come nelle strade, ai vigili urbani si sono sostituiti i blindati e i carri armati. Fin troppo facile constatare che il regime di «transizione» (verso quali lidi, peraltro?) del dopo Mubarak differisca di poco o in nulla in ciò che l’ha preceduto. Ed il fatto che ad essere stati colpiti siano i militanti della Fratellanza musulmana, non propriamente dei genuini sostenitori del pluralismo politico e culturale, cambia in niente il giudizio finale. Poiché dalle violenze in corso non si uscirà con dei nuovi equilibri, capaci di garantire, almeno per un certo periodo di tempo, un accettabile rapporto tra le forze, non basato quindi sulla semplice contrapposizione armata. Piuttosto è plausibile che un meccanismo entropico, dove energie e forze vengono di volta in volta distrutte, in una sorta di conto alla rovescia, passo dopo passo, alla fine del quale potrebbe ingenerarsi l’implosione politica dei fragili regimi sopravvenuti alla «primavera araba», parrebbe essersi innescato. Ozioso, o comunque in utile, esercitarsi nella definizione degli scenari che da tale processo potrebbero derivare. Poiché, come già abbiamo avuto modo di riscontare anche in questa newsletter, al momento non si affaccia ancora all’orizzonte un potenziale vincitore, un soggetto dotato di un progetto strategico, ovvero capace, giocando i rapporti di forze a proprio favore, di essere colui che alla fine della fiera beneficerà una volta per sempre della conclusione dei disordini in atto. Semmai c’è da riscontrare il fatto che alcuni protagonisti, come il terrorismo jihadista e di al Qaeda, non si candidino al governo politico, non quanto meno in senso tradizionale, ossia istituzionale, bensì alla perpetuazione di uno stato di guerra civile senza fine. La qual cosa muove montagne di interessi quanto e più della pace. Le violenze in atto segnano infatti la debolezza non solo delle amministrazioni politiche tradizionali ma anche di quelle forze, perlopiù religiose, o a fondamento religioso, che si erano candidate ad essere le figure attive di un trapasso verso nuove configurazioni di potere. Che queste ultime potessero prima o poi andare ad impattare contro il solidissimo blocco di interessi che si raccoglie intorno ai militari era senz’altro prevedibile. Non solo in Egitto, tuttavia. Lo doveva essere anche per la consapevolezza dei protagonisti i quali, tuttavia, almeno per il momento, sembrano rivelarsi abbondantemente al di sotto della sfida che essi stessi hanno lanciato. Invece che coalizzare la società civile intorno a sé, creando un sodalizio temporaneo con i laici (come fece abilmente l’ayatollah Khomeyni in Iran nel 1978-79, salvo poi disfarsi, a conquista del potere avvenuto, di scomodi compagni di lotta) nel nome di una transizione consensuale, hanno invece evocato e dato forma al sospetto che il loro obiettivo sia puramente teocratico. Non di meno, mentre gli uomini di Morsi, entrati temporaneamente nelle stanze del potere, si sono subito dati alla pratica dell’accaparramento dei posti di maggiore rilievo e alla divisione dei pani e dei pesci pro domo propria, senza offrire neanche un’ombra di risposta agli innumerevoli bisogni che attraversano buona parte della società egiziana, economicamente al collasso, le scarne forze alternative alla Fratellanza, a partire dal Fronte nazionale di salvezza, sono rinculate nel vuoto, firmando una cambiale in bianco all’esercito. Il paese somma adesso alla condizione di gravissima deprivazione materiale, con due terzi della popolazione oramai in povertà, anche uno stato di ingovernabilità politica che non conosceva dai tempi della sua indipendenza. Con l’aggravante, se si vuole ragionare in un’ottica geopolitica, che l’Egitto non è una pedina del gioco ma il re della scacchiera. Ne fanno parte novanta milioni di individui. Finché le turbolenze coinvolgono ciò che resta della vecchia Somalia o attraversano alcune regioni del Sudan, è un conto. Ma se salta il Cairo i riflessi si manifesterebbero da subito sull’intera regione mediterranea e mediorientale. Il rischio, in prospettiva, è che le diverse crisi in corso (ed in particolare la guerra civile in Siria, il tentativo di chiamare in causa il Libano, ma anche gli scricchiolii che arrivano dalla Libia, dove vige un regime politico di fatto territorialmente tripartito, così come dall’Iraq e dalla Tunisia), possano prima o poi saldarsi, rendendo infuocato l’intero Mediterraneo. In gioco ci sono non solo pencolanti equilibri di interesse interni ai singoli paesi ma anche la nozione stessa di sovranità nazionale, che i movimenti fondamentalisti di matrice islamista da sempre reputano superata, nel nome della costituzione di un diverso assetto di poteri basato sulla transnazionalità. La guerra infra-musulmana rivela così le sue pericolose potenzialità, trattandosi di un circuito della violenza permanente, dove tuttavia molte potenze straniere non sono per nulla estranee a diretti e immediati calcoli di interesse. Finora l’intensità del confronto è stata tale da risultare dilacerante per le popolazioni locali ma secondaria o scarsamente influente per la comunità internazionale. Tuttavia, il rischio esondazione è dietro l’angolo. Questo ci dicono, tra l’altro, i fatti egiziani di questi giorni.
Claudio Vercelli
(18 agosto 2013)