Periscopio – Il fuoco vicino
Se un domani, per un’ennesima tragedia, il regno hascemita di Giordania fosse colpito da una guerra civile – per esempio, con gli islamisti determinati o rovesciare la monarchia, e l’esercito mobilitato nella repressione: non sono mancati segnali in questa direzione -, il grande incendio che avvampa fuori dai confini di Israele sarebbe completo. Già oggi, la posizione dello Stato ebraico nello scacchiere mediorientale appare decisamente critica e preoccupante. Siria, Egitto, Libano, Giordania e Palestina sono, piaccia o non piaccia, i vicini di Israele, e con essi è necessario trovare un modus vivendi. E l’idea di un giardino fiorito circondato dalla tempesta non è certo tranquillizzante. Abbiamo sempre pensato che la possibilità di una stabilizzazione duratura della regione sia direttamente legata alla maturazione, in tutta l’area, di una qualche forma di spirito liberale, fondato sull’accettazione della differenza, sulla moderazione, il compromesso, la scelta definitiva del confronto e del dialogo come mezzi per la risoluzione dei conflitti. Quanto più tali valori appariranno, un domani, rappresentati e diffusi, tanto più le possibilità di un futuro di pacifica cooperazione e coesistenza saranno concrete. In assenza di ciò, uno scenario di pace e collaborazione appare irreale. Ma, al di là dell’abusata parola ‘pace’, ciò che appare lontana è l’esistenza di un linguaggio comune, di una qualche condivisione di valori di fondo (al pari, per esempio, di quelli che sembrano accomunare i Paesi europei). Il modo in cui i conflitti interni vengono risolti in Israele e negli stati ad esso limitrofi dà invece la dolorosa sensazione di una distanza siderale. Ed è proprio questa distanza che spinge molti estremisti e fanatici ad auspicare una soluzione basata sulla cancellazione di quell’unico Paese che appare, per la sua civiltà e i suoi comportamenti, una sorta di aporia in un mondo governato da una legge diversa. C’è, in tale ragionamento, una logica.
Non sappiamo ancora quale sarà l’evoluzione della tragedia dell’Egitto, né quali saranno le sue conseguenze immediate sui rapporti tra il colosso arabo e il suo piccolo vicino. Certamente, le terribili violenze in corso non possono non suscitare profondo sconforto e pessimismo riguardo al futuro, nel momento in cui dimostrano come l’opzione della violenza e della sopraffazione restino sempre un carta da giocare, il mezzo più spiccio e semplice per risolvere i problemi. E i metodi che si usano dentro casa si potranno usare ancor più facilmente fuori casa, solo che se ne presenti l’occasione.
Quanto ai contendenti sulla piazza egiziana, per chi bisogna parteggiare? Per gli islamisti che hanno vinto le lezioni, e che hanno usato la vittoria per scatenare la repressione e affossare ogni parvenza di democrazia e laicità? O per i generali, che vogliono ristabilire l’ordine “a modo loro”? L’alternativa è particolarmente deprimente. Nella storia, a nostro avviso, ci sono due categorie di persone che, in ogni circostanza, hanno sempre dato, come governanti, pessima prova, e sono i militari e i religiosi. Entrambi non hanno particolare bisogno di ascoltare il popolo: i primi, perché, tanto, hanno la forza delle armi; i secondi, perché prendono direttive direttamente dall’alto. E sono proprio queste le due categorie che, nel nuovo scenario successivo alle ‘primavere arabe’, sembrano contendersi il primato sul palcoscenico, in Egitto e altrove. Chiunque vincerà, vincerà il peggiore.
Francesco Lucrezi, storico
(21 agosto 2013)