L’etica della Mitzvah

Schermata 2013-08-22 alle 12.29.35È commendevole dedicarsi alle Mitzvot pensando alla ricompensa che ne può derivare? Più in generale, qual è il punto di vista ebraico sull’idealismo e l’altruismo? Esiste davvero quel quid che ci permette di compiere atti meritori senz’altro fine che il bene in sé e per sé? O non è forse vero, come riteneva il filosofo inglese Hobbes, che in realtà l’uomo pensa solo a se stesso e che persino quando agisce in risposta a un ideale lo fa solo per il piacere personale che gli dà quell’ideale (egoismo etico)? Un interessante articolo, ad opera di Rav Yizchaq Blau della Yeshivat ha-Mivtar di Efrat, affronta la questione sotto il profilo del pensiero tradizionale rabbinico (“Purity of Motivation and Desiring the World to Come”, pubblicato nel “The Torah u-Madda Journal” della Yeshiva University di New York, n. 14 (2006-7)). Egli comincia citando il detto di Ravà secondo cui “chiunque esegue una Mitzvah non in nome del cielo sarebbe meglio non fosse stato creato” (Talmud Bab., Berakhot 17a; Ta’anit 7a), in contrasto con quello di Rav: “la persona si dedichi comunque alla Torah e alle Mitzvot sebbene non in Nome del Cielo (she-lo li-shmah), perché sia pure in questo modo arriverà a farlo in Nome del Cielo” (Talmud Bab., Pessachim 50b). Le Tossafot (ad loc.) risolvono la contraddizione così: nel primo caso si tratta di chi studia Torah allo scopo di denigrare gli altri; il secondo riguarda invece chi lo fa per essere onorato. In sintesi, non ci si deve dedicare alle Mitzvot per far del male al prossimo. È lecito altresì compiere Mitzvot per ottenere onori o ricchezze, ma deve essere chiaro che non è questo l’ideale della Torah. Solo l’individuo che esegue le Mitzvot per amore e/o timore di D. ha raggiunto il culmine della motivazione religiosa: la ‘Avodah li-shmah, il “Servizio Divino fine a se stesso”. Fin qui si tratta del perseguimento di fini terreni. Cosa dire delle promesse della vita nel mondo a venire? È nota in proposito l’affermazione di Antigono di Sokho all’inizio dei Pirqè Avòt: “Non siate come quei servi che assistono il loro padrone allo scopo di ricevere una ricompensa; siate bensì come quei servi che assistono il loro padrone non allo scopo di ricevere una ricompensa” (1,3). La ridondanza serve a mettere l’accento sul concetto, sia pure espresso in forma negativa: secondo la maggior parte dei commentatori l’allusione è a una ricompensa ultraterrena. La raccomandazione è dunque di non perseguire fini personali neppure sul fronte più squisitamente religioso, dove la materia e gli interessi terreni non hanno più ragion d’essere. Tutto ciò si scontra in realtà con una domanda che molti Maestri si pongono: per quale ragione in passi come la seconda parte dello Shemà la Torah promette a chi la osserva ricompense sulla terra, quali pioggia e fertilità, mentre il Talmud afferma che “la ricompensa delle Mitzvot non è di questo mondo” (Qiddushin 39b)? Abrabanel raccoglie sette risposte diverse a questo interrogativo (v. anche Kelì Yeqàr a Wayqrà 26,12). Abraham Ibn Ezrà sostiene che la Torah si rivolge anche ai meno colti e deve pertanto ricorrere a un linguaggio concreto. R. Yossef Albo offre una risposta differente. Egli afferma che la Torah parla di ricompense materiali solo sul piano collettivo (non è pensabile che in Eretz Israel piova solo sulle case dei giusti, mentre quelle dei vicini malvagi restino all’asciutto!); la ricompensa individuale rimane riservata al mondo a venire. In ogni caso, questi autori concordano che attraverso tali risposte la Torah vuole fornire agli uomini una motivazione a impegnarsi. Abrabanel stesso conclude dicendo che aspirare a una ricompensa non è affatto scandaloso. Egli richiede soltanto che ci si ponga come obbiettivo una ricompensa elevata ed autentica, la vita del mondo a venire, e non i beni di questo mondo. Diverso è l’approccio del Maimonide. Egli sostiene che osservare la Torah per secondi fini è degno di persone ignoranti. Non si devono eseguire le Mitzvot nè allo scopo di ottenere i benefici materiali che la Torah promette, nè allo scopo di meritare la vita del mondo a venire. Per Maimonide entrambe queste motivazioni rientrano nella sfera she-lo li-shmah. La Torah indulge soprattutto sulla prima non per parlare di ricompensa, ma semplicemente per garantirci che se osserveremo le Mitzvot il S.B. continuerà a darci le condizioni materiali ottimali affinché saremo in grado di assolvere sempre più e meglio ai nostri doveri. Secondo un’altra spiegazione di Maimonide stesso, il linguaggio della Torah in questi passi sarebbe nient’altro che una concessione alle credenze pagane dell’epoca, per cui il fervore religioso avrebbe prodotto ricompense materiali. La Torah avrebbe rassicurato gli ebrei che prendere le distanze dal paganesimo non significava rinunciare ad alcun beneficio. Ma la verità – conclude Maimonide – va perseguita in quanto verità. Il senso del pensiero di Maimonide è chiaro. Se l’individuo religioso guarda alle Mitzvot come a un biglietto per il mondo a venire e non come all’esecuzione di un comando divino, l’azione finisce per contenere una certa dose di interesse personale. Ma sarebbe ciò negativo in assoluto? Possiamo davvero chiedere ad esseri umani lo sforzo di agire dimenticando del tutto il proprio ego, anche nella sfera spirituale? C’è nel Talmud un’ulteriore fonte che pare contraddire il Maimonide. “Colui che afferma di voler fare Tzedakah per derivarne in cambio il benessere dei figli e la propria parte nel mondo futuro è un giusto completo” (tzaddiq gamùr – Pessachim 8a; Rosh ha-Shanah 4a). Le Tossafot (a Pessachim 8b s.v. she-yizkeh) spiegano la strana affermazione dicendo in sostanza che il Talmud si riferisce qui a chi ha entrambe le motivazioni: colui che pur partendo dal do ut des non si ferma se non viene esaudito, ma esegue la Mitzvah in ogni caso. Costui è davvero una personalità completa, in quanto sa coniugare il reale con l’ideale! R. Tzadoq ha-Kohen da Lublino distingue a sua volta due diversi approcci al mondo a venire. C’è chi se lo immagina come un’occasione per indulgere in piaceri materiali: è questa certamente una motivazione she-lo li-shmah, “perchè non è differente dalle ricompense di questo mondo. Se invece si prende in considerazione la vera essenza del mondo a venire, ovvero il godimento dello splendore della presenza divina, non è questo un piacere egoistico… Al contrario è lecito aspirare ad una simile ricompensa ed è permesso eseguire Mitzvot in suo nome, essendo la più pura delle intenzioni”. Insomma, la grandezza della psicologia ebraica consiste, lungi dal reprimere il desiderio personale in quanto tale, nel saperlo purificare, sublimare, trasformare e trasfigurare in un ideale assoluto e condiviso. Esattamente il processo contrario di quello postulato da Hobbes.

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, agosto 2013

(22 agosto 2013)