Qui Padova – Otto artiste raccontano il ‘900

Eva Fischer, Tre barche (1957).Otto donne. Libere, emancipate, viaggiatrici, ambasciatrici di cultura ai più alti livelli. Saranno le protagoniste della grande mostra Ebraicità al femminile: Otto artiste del Novecento organizzata dalla Comunità ebraica di Padova in collaborazione con l’amministrazione cittadina al Centro Culturale Altinate. Curata da Marina Bakos (nella foto) con il supporto di Virginia Baradel, la rassegna sarà inaugurata venerdì 30 agosto e resterà aperta al pubblico fino a metà ottobre. A fare da perno la figura di Antonietta Raphaël, pittrice e scultrice di fama mondiale e fondatrice assieme al marito Mario Mafai del celebre sodalizio “di via Cavour”, che sarà presente con una ventina di selezionatissime opere. E con lei, in un continuo dialogo tra diverse correnti che sarà sviluppato negli spazi espositivi, il contributo artistico di Adriana Pincherle, Alis Levi, Eva Fischer, Gabriella Oreffice, Lotte Frumi, Paola Consolo e Silvana Weiller. Obiettivo dell’esposizione: dare il giusto risalto, osserva la curatrice, “a quei tracciati di esperienze femminili che sono state in grado di trasformare una condizione di minorità sociale in una ragione di affermazione, di indipendenza creativa tali da valorizzare sia le loro esistenze che la vita culturale del nostro paese”. Al di là dell’appartenenza di genere, riflette ancora Bakos, gli artisti ebrei del Novecento erano accomunati dall’appartenenza alle classi medioalte e all’elite culturale e concepirono un’arte variamente declinata. Alcuni intrinsecamente latina e mediterranea, altri attenti agli sviluppi dell’avanguardia europea per riaffermare tutta la libertà creativa insita nel liberalismo italiano. Mediando continuamente tra la vita pubblica e la vita privata, tra l’identità religiosa e quella nazionale, “realizzarono un operato sostanzialmente legato e concorde a quello che andava consolidandosi sulla scena della cultura europea contemporanea”. L’idea viene da lontano: due anni di gestazione per arrivare un mosaico di notevole fascino e complessità. Con uno sponsor d’eccezione: la scrittrice Miriam Mafai, figlia di Mario e Antonietta, adoperatasi per l’esito positivo dell’iniziativa anche negli ultimi tormentati giorni di vita.
(nell’immagine: Eva Fischer, Tre barche, 1957)

Tradizione, vocazione, passione

Unica nel suo genere, la mostra presenta un’accurata selezione di opere di otto artiste del Novecento che tiene conto di una doppia identità: l’essere donne ed ebree oltre che artiste, dedicate a una vocazione scelta e perseguita con lucida passione. Al centro dell’esposizione s’impone, per quantità e qualità di opere, la presenza di Antonietta Raphael, protagonista della Scuola Romana, pittrice e scultrice il cui valore è emerso con chiarezza sin dalle prime rivisitazioni condotte con approfondite mostre monografiche sin dagli anni Ottanta. In mostra ci saranno opere fondamentali e assai note: dipinti come Autoritratto con violino e Natura morta con chitarra e un consistente numero di sculture come Angoscia e Re Davide piange la morte di Assalonne. Non mancano soggetti relativi al tema dell’ebraicità (La lamentazione di Giobbe e Yom Kippur in sinagoga) nei quali Raphael ribadisce il suo “deciso orgoglio della differenza”: Mia madre benedice le candele appare come il testamento morale di una donna e di un’artista straordinaria. Una sala centrale è dedicata anche a Eva Fischer, pittrice assai feconda e ancora attiva. Fischer traduce il ricordo “della tragedia” in un personale diario sulla Shoah: è la pagina più toccante della sua produzione fatta di colori lividi che rimandano ai versi di Nelly Sachs (Meditate che questo è stato). Ma la sua personalità solare si nutre anche di altri temi che si succedono a cicli: gli Interni, i Mercati (che incantarono de Chirico), Capri le cui architetture mediterranee finiranno per trasformarsi in partiture astratte ispirate alle composizioni che scrisse per lei Ennio Morricone. Fisher visse per intero la stagione romana del dopoguerra, apprezzata dai protagonisti dell’arte, del cinema, della letteratura, della musica che si davano convegno in quei luoghi di socialità e dibattito rimasti leggendari. La prima sala della mostra è dedicata ad Alis Levi che si presenta con i disegni di formazione e le prime prove a pastello nate sulla scia dei maestri francesi, ma che ben presto lasciano spazio a innovazioni di matrice capesarina, vicine a Gino Rossi e a Garbari, come testimonia Bambino sotto l’albero. In opere quali S. Pietro in Volta e Paesaggio Alis si affida prevalentemente all’acquarello: i piccoli paesaggi pittoreschi sono pieni di luce, incastonati in ombre scure e animati dal gioco dei pastelli che crea densità e asperità accentuandone i toni e esaltandone il valore cromatico. Continuando nel percorso troviamo affiancate nella sala successiva, Adriana Pincherle e Gabriella Oreffice, due pittrici che accendono i toni di una policromia pulsante confrontandosi sulle due sponde opposte dell’Espressionismo e del Postimpressionismo. Adriana, la “fauve” romana, mette tutta la sua vitalità in “pezze di vivo colore” distribuite con eguale irruenza nei celebri ritratti (come quelli della sorella: Ritratto di Elena con cappellino del 1950 e nel più tardo Ritratto di Elena Cimino) e nelle composizioni come La scatola dei guanti, di grande e costruttiva intensità cromatica. La Oreffice esponente di spicco della seconda stagione capesarina, esordisce in mostra con Maschera siamese che risente di un breve ma fecondo allunato presso Galileo Chini. A seguire dipinti di straordinaria carica cromatica come la tempera del 1919 Natura morta con sedia rossa o Mele e tazzina, un olio su tavola del 1927, mentre in Natura morta – Il The, del 1920 il colore si fa più scabro e asciutto. Paesaggi quali Barene a Mazzorbo del 1926 risentono ancora di cromatismi brillanti che in opere come Riva degli Schiavoni e Barche sul canale si ripiegano in luminosità più soffuse. Spicca in mostra il Ritratto di Semeghini, del 1929. Altro genere di pittura è quello di Lotte Frumi, nata a Praga e formatasi alla cultura Mitteleuropea (conobbe e frequantò Kafka e Schiele). Il suo stile si basa su un antinaturalismo espressionista che si avvale di una luce chiara, a volte livida e di colori freddi cui spesso fa da contrappunto il dialogo acceso di rossi e ruggine. In mostra paesaggi quali Vela rossa e Le lavandaie dialogano con i ritratti di Armando Pizzinato ed Ernesto Rubin de Cervin. La koiné novecentista è presente in mostra con una pittrice di grande valore, nipote di Margherita Sarfatti, che morì giovane di parto, Paola Consolo. Le sue figure fortemente modellate, vigorosamente plastiche ma possiedono anche una sottile intelligenza del colore che, diventando via via meno mentale, si affida ai rosa segreti, ai grigi minerali, agli azzurri soffusi che infondono alla sua pittura una liricità silenziosa. Nell’Autoritratto, esposto alla Biennale del 1932, l’artista si presenta come un’icona novecentista: i toni bassi sottolineati dal chiaroscuro accentuano la rigorosità delle forme. Nell’ultima sala Silvana Weiller, che non è stata solo pittrice ma anche poetessa, scrittrice, critica d’arte e letteraria. Protagonista dell’intellettualità patavina degli anni Cinquanta e Sessanta, è figura ancora molto amata in città. La mostra mette in risalto un operato articolato e pluriforme, muove da sperimentazioni materiche grevi di colore squillante (Il Prato verde) dove pian piano ogni figuratività è rimossa (Muri in ghetto e Alberi di luce) sino a giungere ai monocromi, densi di pece rappresa. Il percorso espositivo, ospitato nel piano nobile del Centro Culturale Altinate-San Gaetano, si avvale dell’allestimento di Fumolo e Luser di trart, l’organizzazione che edita anche il catalogo bilingue con testi di Marina Bakos, Virginia Baradel e Serena De Dominicis e corredato delle biografie delle artiste. Accompagneranno la mostra un video d’apertura in cui Marina Bakos illustrerà il significato e il carattere della mostra e due videointerviste: all’unica artista ancora attiva, Eva Fischer e alla nipote di Adriana Pincherle, Gianna Cimino. I video sono stati realizzati da DNA. Regia e montaggio di Diego Loreggian e Andre Guidot.

Italia Ebraica, agosto 2013

(30 agosto 2013)