5774 – Guide in discussione, da noi e nel mondo

anna segreQuest’ultimo anno non ha visto solo molte novità sui leader religiosi (un nuovo Papa, due nuovi Rabbini Capo di Israele, ricerca di un nuovo Rabbino Capo per Torino). È stato soprattutto l’anno delle riflessioni sul significato di questi ruoli: le discussioni non riguardavano soltanto questa o quella personalità, ma la natura e la funzione stessa dell’istituzione che i leader erano chiamati a guidare. Le dimissioni di un papa, fatto quasi unico nella storia (con il precedente di Celestino V miseramente maltrattato da Dante), a rigor di logica non ci dovrebbero riguardare, ma in realtà non è così per noi che viviamo immersi in una società cattolica: se un’istituzione che percepivamo come immutabile e avvolta da un alone di sacralità ha dimostrato di sapersi mettere in discussione, e proprio da parte di un papa considerato conservatore come Benedetto XVI, vuol dire che si può discutere di tutto, che anche istituzioni che durano da secoli o millenni possono essere riconsiderate alla luce dei problemi e delle esigenze di oggi. Intanto nell’Italia ebraica pare sempre più in difficoltà il modello del rabbino comunitario indipendente e che non deve rendere conto a nessuno del proprio operato. Una lettera di qualche mese fa dal Rabbinato Centrale di Israele sui batè din (tribunali rabbinici) italiani ci ha ricordato ancora una volta, dopo la vicenda dei biscotti di Pesach di qualche anno fa, che la centralità dello Stato di Israele ha determinato negli ultimi decenni una centralizzazione nel mondo ebraico con cui non possiamo evitare di fare i conti: ci sono di mezzo i riconoscimenti dei ghiurim, le certificazioni di kasherut e molte altre cose. Siamo ancora lontani dal Papa infallibile, ma siamo anche lontani dalla possibilità di dire che ciò che succede in Israele a proposito di rabbini non ci riguarda. La lettera in apparenza ha rappresentato la conferma dello schema interpretativo a cui ci eravamo abituati negli ultimi anni: un ebraismo italiano formalmente ortodosso che cerca di salvare la propria unità barcamenandosi tra richieste dall’estero di maggior rigore e presenza sempre più attiva nel territorio di gruppi ebraici non ortodossi. Contemporaneamente, però, abbiamo anche assistito nella stessa Israele a discussioni più accese che mai sui Rabbini Capo, non solo per la candidatura di un modern orthdox e per le critiche talvolta violente a questo o a quel candidato, ma in generale per l’ampia risonanza che tutto il processo di elezione ha avuto sui media israeliani, e anche su queste stesse pagine. Il Rabbinato Centrale appare un’istituzione di cui più che mai si percepisce l’importanza, ma che, proprio per il suo peso nella vita di così tante persone in Israele e nella diaspora, non può più essere accettata così com’è senza una riflessione generale sulla sua natura e sulle sue funzioni. Alla luce di tutto questo il senso della lettera sui batè din italiani risulta meno chiaro e forse a qualcuno potrebbe apparire quasi come un colpo di coda di un’istituzione che si preoccupa di ribadire le proprie prerogative perché sa di essere lei stessa in discussione. In questi ultimi mesi abbiamo constatato che l’ebraismo ortodosso non è così compatto e monolitico come ci eravamo abituati a pensare, e quindi non funziona del tutto lo schema interpretativo che vede l’ebraismo italiano come una piccola appendice anomala che cerca il riconoscimento formale di un ebraismo internazionale compatto e strutturato. L’ebraismo ortodosso è un mosaico di cui siamo un tassello, forse piccolo ma essenziale come ogni altro tassello. Oggi il problema non é tanto come farci riconoscere da un’autorità al di sopra di noi su cui non abbiamo nessuna influenza, ma come potremmo portare il nostro pur piccolissimo contributo a una discussione globale che ci vede coinvolti tutti insieme, laici e religiosi, diaspora e Israele. Infine Torino: una piccola Comunità ebraica che ha condiviso con un miliardo di cattolici e alcuni milioni di israeliani l’emozione di attendere la nomina della propria guida spirituale, riflettendo e discutendo sul suo ruolo ma senza la possibilità di incidere direttamente sulla scelta (affidata nel caso torinese a una maggioranza consiliare comunitaria che ha rivendicato il diritto-dovere di decidere autonomamente). L’assenza di un voto popolare potrebbe non essere necessariamente un male, ma, anzi, una fonte di maggiore autorevolezza per l’istituzione, come accade per il Presidente della Repubblica in Italia, anche se non si può nascondere un po’ di rammarico per un altro elemento comune alle tre situazioni: la scarsità di donne tra coloro che decidono (peraltro su cariche considerate indiscutibilmente maschili). Vorrei augurare un anno felice e proficuo a tutti i nuovi leader religiosi, con la speranza che quando questo articolo sarà letto i miei auguri includano anche il nuovo Rabbino Capo della mia Comunità.

Anna Segre, Pagine Ebraiche, settembre 2013

(3 settembre 2013)